Ley Lines, recensione di Riccardo Rosati

Ley Lines

(日本黒社会 LEY LINES, “Nihon Kuroshakai LEY LINES”)

 

Genere: azione
Nazione: Giappone
Anno produzione: 1999

Durata: 105′
Regia: Takashi Miike
Cast: Kazuki Kitamura, Tomorowo Taguchi, Takeshi Caesar, Ren Ōsugi. Kashiwaya Michisuke, Dan Li, Shō Aikawa

Produzione: Kodokawa Pictures

Distribuzione: Dynit
Sceneggiatura: Ichirō Ryū

Alla ricerca di una identità

Lasciare il Giappone è il sogno di Ryūichi, giovane provinciale continuamente vessato fin da bambino a causa delle sue origini cinesi. Non riuscendo a procurarsi un passaporto per l’espatrio, decide di tentare la sorte e dunque di partire per la Capitale. Altri giovani mettici  scelgono di accompagnarlo nella sua avventura nella grande città. Ma le cose andranno parecchio storte, tra rapine, mafia e tanta violenza. L’unica opportunità di guadagno è lo spaccio; la sola speranza è la fuga da un Paese che non gli appartiene e che lo respinge senza troppi complimenti.

 

 

 

 

I bassifondi del Giappone

Con il terzo capitolo della trilogia sulla mafia cinese, che fa  seguito a  Shinjuku Triad Society (1995) e Rainy Dog (1997), Takashi Miike conferma di essere forse l’unico regista giapponese a parlare con tanta insistenza di immigrazione e di integrazione nella società nipponica. Egli trova affascinante questa tematica e quindi ama rappresentare lo “straniero”, inclusi i meticci, quasi volesse concedere ai propri connazionali la possibilità di crearsi un altro destino. Ci regala così un Giappone insolitamente multiculturale, che incrina la concezione autarchica e pulita che si ha abitualmente del Sol Levante, una immagine che in molti, dal cinema alla televisione, hanno da sempre contribuito a forgiare. Quella di una Nazione-Popolo, in cui il “diverso”, figuriamoci poi uno straniero, può essere al massimo un ospite. Quello di Miike è un cinema dello sradicamento, figlio di quella crisi per una mancanza di radici che ha come protagonisti gli immigrati e i loro figli, benché in verità essa faccia riferimento alle ultime generazioni in generale, le quali hanno ormai perso tutta la coscienza della propria identità, diventando succubi del modello globalizzante.

 

 

Una brutta fotografia penalizza in parte la qualità dell’opera, la quale si distingue immancabilmente per alcuni “marchi di fabbrica” del regista, come, ad esempio, l’ansia per la imminente esplosione di una violenza gratuita e la scabrosa e misogina visione del sesso.

 

In definita, per un film praticamente senza trama, il risultato raggiunto        è abbastanza buono. Particolarmente apprezzabile è il convincente ritratto di una gioventù malgrado tutto innocente e che cerca disperatamente una  via di scampo, un posto migliore in cui vivere, sapendo di non poterlo mai raggiungere; capendo di essere sconfitta in partenza.

 

Riccardo Rosati

 

DVD
Caratteristiche tecniche

Formato Video: 16:9 anamorfico

Formato audio: Giapponese Dolby Digital Surround 2.0

Sottotitoli: Italiano

La qualità dell’audio è buona, ma quella video è abbastanza scarsa, tuttavia non del tutto imputabile al prodotto, visto il basso livello della fotografia.

Contenuti speciali

Trailer titoli film Dynit di Takashi Miike.