El Jockey di Luis Ortega
Recensione di Massimo Coltellacci
Remo Manfredini è un fantino professionista in declino, all’inizio lo vediamo nella vasca da bagno, che suda, si strofina le cosce con furia, poi si droga per abbassare il peso. Questa scena, che dura diversi minuti, non è solo una rappresentazione della fatica fisica: mostra la completa solitudine di un corpo che deve adeguarsi a una forma per essere utile.
La scomparsa dopo l’incidente è brusca, tagliata. Il film non si interessa alla cronologia. Quando lo rivediamo, è travestito. Entra in un supermercato, si siede per terra e mangia direttamente dalla confezione. La guardia lo caccia e lui non protesta. Questo comportamento, più che ribellione, mostra una perdita di confini: Dolores (il nome che userà da qui in avanti) è un rifugio in cui smettere di obbedire a ruoli fissi, compreso quello dell’uomo sportivo, del padre in arrivo, del debitore.
Il confronto tra la compagna Abril, anche lei fantina, e incinta, e Sirena, boss del circuito delle corse, è silenzioso, ma chiaro. Lei non risponde mai apertamente, ma resta seduta dritta mentre lui la minaccia a mezza voce. Il film mostra come chi non ha potere debba restare fermo, quasi immobile, per evitare di peggiorare la propria posizione.
Nel motel, Dolores si trucca davanti allo specchio, poi si sdraia vestita sul letto. La prostituta che entra non fa domande. Qui il film si concentra sull’assenza di sorpresa, sull’indifferenza.
Il confronto nel parcheggio con Sirena è uno dei pochi momenti in cui Dolores viene chiamata direttamente per nome. Ma non risponde. Piuttosto che affrontarlo, si mette gli occhiali da sole. Dolores si difende per non entrare in un nuovo ciclo di obbedienza.
Nel finale, Abril la vede per strada. La chiama, ma Dolores sale su un autobus senza girarsi. Una signora le offre il posto. “Sto bene così”, risponde. Non è una frase simbolica: è letterale. Per la prima volta, Dolores non ha bisogno di corrispondere a un’aspettativa, non deve dimostrare niente.
