Queer di Luca Guadagnino
Recensione di Massimo Coltellacci
Bill Lee (Daniel Craig) è un uomo di mezza età che vive a Città del Messico negli anni ’50. Non lavora, non ha rapporti stabili, si muove tra bar per stranieri, alberghi modesti e ambienti poco frequentati. Usa droghe leggere e passa molto tempo da solo.
In un bar conosce Eugene (Drew Starkey), un ragazzo più giovane che parla poco e resta sulle sue. Bill gli offre da bere, gli chiede di uscire, cerca di attaccare bottone. Eugene non lo manda via, ma nemmeno lo incoraggia. Risponde in modo secco, spesso con battute sarcastiche, e cambia discorso quando Bill si fa più diretto. In un’altra scena, Bill cerca di baciarlo mentre passeggiano, ma Eugene si sposta, dice che è stanco e rientra in hotel da solo. Il giorno dopo Bill lo aspetta fuori dalla stanza, ma Eugene non scende.
Il film mostra molte scene in cui Bill osserva Eugene da lontano: seduto al bar mentre lui parla con altri, fuori da una finestra mentre rientra in albergo, o sul bordo della piscina mentre Eugene si fa massaggiare da una ragazza. In una scena, Bill prova a portargli un regalo, un oggetto piccolo, forse un accendino o una scatola. Eugene lo guarda e dice solo: “Perché me lo dai?” e poi non prende nulla.
Una parte centrale del film è ambientata durante un ritiro in una casa fuori città. Qualcuno propone di bere ayahuasca. Bill beve insieme agli altri. Le scene successive sono frammentate: corpi nudi che si muovono, mani che si toccano, respiri affannati. Bill partecipa, ma sembra sempre in ritardo rispetto a quello che succede intorno. In una delle visioni, vede Eugene nudo, sdraiato accanto a lui, che lo guarda ma non dice nulla. Poi l’immagine cambia. Nella realtà, non è chiaro se Eugene fosse davvero presente.
Un’altra scena mostra Bill nudo in camera. Si guarda allo specchio, si siede sul letto, accende una sigaretta e si corica. Non parla. In un’altra scena, prova ad accarezzare Eugene mentre dorme su un’amaca. Eugene apre gli occhi, lo guarda, poi si gira dall’altra parte. Non ci sono urla o litigi, solo distacco.
La scenografia sembra costruita in studio. Le case hanno pareti colorate, mobili coordinati, oggetti nuovi. Le strade sono poco frequentate, pulite, senza disordine. I bar hanno luci soffuse e musica tenue. I vestiti di tutti sono sempre in ordine. Non c’è sporco, né segni di usura nei luoghi. L’effetto è quello di un ambiente chiuso, separato da tutto il resto.
Daniel Craig interpreta un uomo che osserva, aspetta, insiste. Parla poco, sorride nei momenti sbagliati, si avvicina quando l’altro si allontana. In molte scene si limita a guardare Eugene senza sapere cosa dire. In una scena alla fine del film, lo vede uscire da un taxi con un altro uomo. Li segue fino all’hotel, poi resta fuori a guardare. Non entra.
Il film non segue una trama con sviluppi o risoluzioni. Non ci sono spiegazioni, né momenti in cui i personaggi chiariscono quello che provano. Le azioni sono ripetitive. Il rapporto tra i due non cambia. Il film termina senza conclusioni: Bill è ancora da solo, Eugene è altrove, nessuno dei due ha detto davvero cosa vuole.
