The Brutalist di Brady Corbet, Recensione di Massimo Coltellacci

The Brutalist di Brady Corbet

Recensione di Massimo Coltellacci

Finalmente un film che parla davvero di architettura.
The Brutalist non usa l’architettura come sfondo decorativo o status symbol: la mette al centro del discorso esistenziale, politico e artistico. Lo fa attraverso la figura di László Tóth, protagonista silenzioso ma potentissimo, presentato come ex studente del Bauhaus – formazione che, nel linguaggio del film, ha un valore simbolico fortissimo.

Il Bauhaus, chiuso dai nazisti nel 1933, non è solo un riferimento culturale: è il sogno infranto dell’arte moderna, dell’architettura al servizio della collettività, della bellezza funzionale e democratica.
Tóth arriva in America con quella visione spezzata, portando sulle spalle il peso dell’esilio, della perdita e della marginalizzazione.

La sua architettura non è solo stile: è testimonianza, difesa, memoria strutturale.

Il film non lo dice esplicitamente, ma lo mostra: le sue opere sono fatte di cemento, linee nette, assenza di ornamento. Sono edifici etici, non estetici. Costruzioni che non cercano di piacere, ma di resistere.

Uno dei nuclei più potenti del film è la rappresentazione del rapporto tra architetto e committente, in particolare il modo in cui questo rapporto è viziato da una dinamica di potere profonda e asimmetrica.

Il personaggio di Van Buren non si comporta come un semplice cliente che acquista un progetto: si percepisce come colui che “dà una possibilità”, come se offrire lavoro a László fosse un atto di benevolenza, più che una transazione contrattuale.

Questa dinamica è sottile ma devastante: il committente non commissiona un’opera, acquista fedeltà, sottomissione, riconoscenza.

Il film suggerisce che nel mondo dell’arte e dell’architettura, il potere economico tende a esercitarsi non solo sulle opere ma sulle persone: sull’identità, sull’autonomia, persino sul corpo.
In questa prospettiva, The Brutalist mette in scena una verità scomoda: quando chi finanzia l’arte si crede padrone del processo creativo, chi crea non lavora più: si sottomette.

Il punto di rottura — la violenza sessuale subita da László — non è un’eccezione drammatica, ma la manifestazione estrema di un abuso sistemico già in atto. La scena rappresenta il culmine di un processo in cui l’architetto, privo di potere contrattuale e sociale, è spinto a cedere tutto, anche sé stesso, per ottenere il privilegio di esprimere la propria visione.

Collegato a questo è uno dei momenti chiave che si svolge durante una cena, quando Erzsébet Tóth irrompe e accusa pubblicamente Harrison Van Buren di aver abusato sessualmente di suo marito, László. La scena, girata in piano sequenza, rappresenta un punto di svolta tanto nella struttura narrativa quanto nella messa in scena visiva.

La cena è simbolicamente il luogo della falsa armonia sociale: la sua accusa non solo espone Van Buren, ma rivela la complicità silenziosa dell’ambiente che lo circonda.

The Brutalist è un film che vede il lavoro dell’architetto come campo in cui ideali e necessità entrano spesso in conflitto e che mostra come il talento e la visione personale non bastino a proteggere dall’arbitrio di chi detiene i mezzi in un sistema sbilanciato.