Vermiglio di Maura Delpero
Recensione di Serena Verdone
Microstoria di una famiglia trentina nell’inverno del 1944 per raccontare qualcosa di più ampio: la guerra che si insinua nel privato e la solitudine delle donne.
Siamo nel paese di Vermiglio, sulle montagne del Trentino. La famiglia Graziadei vive un equilibrio apparente: la madre Adele gestisce il quotidiano con autorità muta, il padre Cesare si ostina a insegnare l’italiano in un villaggio che resiste in dialetto.
L’equilibrio precario salta con l’arrivo di Pietro, soldato siciliano disertore. Il cuore del film è Lucia, adolescente che si innamora di Pietro. Quando rimane incinta e si sposa con lui, sembra l’inizio di un’emancipazione. Ma la guerra non è finita. Pietro torna a casa, la notizia della sua morte arriva, e da lì inizia una seconda guerra, quella psicologica. Lucia si chiude, rifiuta la figlia, tenta il suicidio, poi viaggia fino in Sicilia.
Il contrasto tra il dialetto trentino e l’italiano insegnato dal padre diventa simbolo di una cultura che cambia. Le dinamiche familiari raccontano l’Italia del dopoguerra attraverso le donne: Lucia, ma anche Ada, la prima moglie, che lavora in un orfanotrofio, e la madre Adele, figura austera.
La scena in cui Lucia accompagna la figlia all’orfanotrofio e si allontana senza voltarsi mostra in modo diretto la fatica di una scelta senza appoggio né conforto. Stesso sentimento è nella scena in cui Lucia, rientrata in paese dopo il viaggio in Sicilia, viene accolta con indifferenza. Non ci sono saluti, né domande. La madre la guarda appena, le porge un grembiule come se nulla fosse. Non si tratta di punizione, ma di rimozione: il ritorno non è visto come un reinserimento, ma come una resa silenziosa.
Vermiglio chiude mostrando una ragazza che prende atto di un contesto che non ha spazio per lei e decide, semplicemente, di andarsene. Non per cambiare il mondo, ma per smettere di starci dentro alle condizioni degli altri. Nessuno le chiede nulla, nessuno la ferma
