Fame, perdono, mutamento: PINOCCHIO è morto, viva PINOCCHIO, di Sandra Tarantino

Fame, perdono, mutamento: PINOCCHIO è morto, viva PINOCCHIO,  di Sandra Tarantino

Garrone deve averlo amato davvero molto, il libro di Collodi, per essere riuscito nella difficile impresa di conciliare fedeltà al testo (e alle atmosfere) e necessaria attualizzazione. Dimenticate il Cunto de li cunti, questo film ha una leggerezza dolce, a fronte della storia che sappiamo, per tre quarti straziante come dolorosa era (ed è) la condizione umana di chi si sveglia la mattina e sa che la miseria non si distrarrà nemmeno un attimo, nella sua giornata, serrata al braccio di chi ha un pensiero fisso nella pancia che grida, sussurra, canta, mima, argomenta una sola parola: fame. Necessità, bisogno, impossibilità di essere altro che una creatura legata all’animalità della strategia di caccia, del cibo, dei soldi necessari a procurarselo. Il motivo per cui Pinocchio è superiore ad Alice nel paese delle meraviglie (naturalmente a parere di chi scrive, ma si tratta di un’antica querelle tra due scuole di pensiero assai accanite nel difendere l’universo che a tali capolavori sottende) è che si tratta di un romanzo vero, umanamente dolente, sociale. Pinocchio ha poco da scegliere. Men che meno può permettersi il lusso di inventarsi il gusto morbosetto di un’avventura forzatamente lisergica tra creature altrettanto scollate quanto la protagonista Alice, che alla fin fine mette in moto tutto per pura noia. Non le manca niente, per cui si scoccia, la signorina. Tanto è tutto finto. Cresce (per finta), decresce (per finta), prova ogni genere di sostanza, incontra personaggi fintamente cattivi e alla fine non ha capito più o meno nulla di cosa le è accaduto. Cerchio fatuo di finta formazione, tuttavia estremamente valido a descrivere una situazione borghese adulta di insoddisfazione e tentativi perennemente frustrati di ricerca di senso, fatalmente condannati alla vacuità, che il sogno barra visione rende ulteriormente irreali.

Tornando al nostro amato (odiato per tutta l’infanzia, sia chiaro, come sempre e comprensibilmente è stato e sarà per tutte le generazioni di piccoli lettori) Pinocchio, ecco.

Il perdono.

E’ l’essenza del libro, esaltata dal film. Quello che assieme ad altri passaggi più prevedibili, costituisce il nucleo fondante della crescita. Il principale insegnamento che il piccolo riceve tanto dalla fatina quanto dal padre (e non è vero che da parte dei genitori sia scontato).

La relatività del bene.

E’ bene andare a scuola? Anche quando è discriminatoria, punitiva, nozionista, in una parola cattiva? Resta bene. Un maestro che chiaramente gode a punire ma è così Don Abbondio da arrendersi, con disappunto, quando capisce che il dolore inflitto non arriva (la scena delle bacchettate è importante) allo stesso modo in cui elargisce il sofferto 10. Perché non può fare diversamente, dunque conviene adeguarsi.

La relatività del male.

Davvero il Lucignolo di Garrone è un lucignolo? Poverino. Che tenerezza. Ha tutte le ragioni. Anche la madre, si capisce, fa poco altro che punirlo. E’ la fame. Allora la posizione di Garrone si fa chiara. Quanta colpa c’è nel doversi arrabattare a inventarsi un incanto baloccoso, in una realtà in cui i balocchi non esistono, se non nel sogno? Che colpa può esserci nel rubare per mangiare, come unica alternativa a morire? Che colpa c’è nel sapersi nato ciuccio e nel decidere (a questo punto titanicamente) di finire morto ciuccio? Una piccola sbornia di divertimento alla fine è forse l’unica cosa che di quella vita tristissima il Lucignolo sacrificale potrà dire di aver vissuto per sua scelta.

Crescere e mutare.

Crescere è un incanto e un incantesimo. Lo dice la fatina ragazza, e all’inizio Pinocchio non capisce. Anzi si rattrista della mutazione, perché sa che comporta altro, pesante. Poi comprende del tutto. Lui potrebbe non mutare e paradossalmente non soffrire più di tanto, ma di colpo percepisce la tragicità della sua condizione limbo. Non mutare significa non accedere all’incanto/incantesimo della crescita. Se non cambi non cresci. E tuttavia è importante comprendere che anche nella mutazione restiamo gli stessi, o più precisamente, ciò che di meglio è in noi può non corrompersi, se ci crediamo. L’abbraccio ritrovato tra il bambino e la ragazza esprime mirabilmente questa epifania.

Amici, nemici…

Dipende dalla coscienza acquisita. Finti amici, veri nemici, e viceversa. Gatto e Volpe vs Grillo (nel film intelligentemente pensato come un amico piccioso e fastidioso, saccentino ma senza le modalità della pedanteria degli adulti, piuttosto alla pari col burattino). Anche lui, come la fatina, fra i pochi percepibilmente al confine tra vita e morte, mutabili. Straniante (sia nel romanzo che nel film) il doppio ruolo del grillo quando compare come uno dei dottoroni rapaci, che non a caso gestiscono il confine vita-morte, esemplare dichiarazione di sfiducia della pseudoscienza fatta di paroloni a gara, in cui vince chi è più bravo a utilizzare in maniera prevaricatrice il peso della propria finta cultura e posizione sociale (tematica carissima al Manzoni: quei due sono due azzeccagarbugli fatti e finiti).

Umani, bestiali.

Carte meravigliosamente mescolate da Garrone. Tanto è così. Davvero i cani finiscono col somigliare ai padroni o è viceversa? Il gatto e la volpe (centratissima la scelta di Ceccherini/Papaleo e la loro performance) ricordano tanto la coppia di cani degli Aristogatti: il leader che pensa e verbalizza, il gregario che sostanzialmente ripete, più o meno partecipe (o anche l’altrettanto ben assortita coppia di investigatori – Mister Carotino più Segugio – creata da Rodari nel mai adeguatamente tributato “Le avventure di Cipollino”). E la loro animalità è evidente nei gesti, non serve mascherarli, basta vederli mangiare e non si dubita della loro chiara essenza ferina.

La morale capovolta.

Chi è innocente ha colpa. E viceversa. E’ la prima vera lezione che Pinocchio impara. Ma è significativo che la sua bugia detta al fine di assecondare una dinamica che chiaramente non condivide, in tribunale, non gli faccia crescere il naso… Giudice scimmione. Si commuove! Ma ha le idee chiare. In prigione, in prigione! (Bennato va aggiunto di merito a quei grandi usciti dignitosamente dal confronto col libro).

Padri

Se è vero che tutte le persone che incontriamo nella vita (purché amate, o odiate) lasciano in noi un segno indelebile in ciò che poi saremo (in un gesto, in una esitazione, in una associazione mentale definitiva e implacabile), altrettanto forse può dirsi di ciò che accade agli attori rispetto ai personaggi interpretati. Guido di “La vita è bella” fa capolino, dolcemente, dolentemente, umanamente, fisicamente, in Geppetto. E Benigni, Pinocchio finalmente cresciuto (e autoliberatosi dal complesso del suo Pinocchio), che non poteva che diventare il migliore dei padri di sé stesso, è enorme. Minimo. Enorme.

Madre

La madre non è assente, è ubiqua. E’ in tutto ciò che di femminile è ravvisabile nell’universo. La fatina è madre perché simboleggia questo, ed è un archetipo. Dura e perdonante, ma solo in termini educativi, mai gratuita. Bella, dolce, severa. E mutevole. Autonoma, peraltro. Non necessita di figure maschili. La sua tata, zia, collaboratrice, sorella, amica Lumaca serve a ribadire il concetto. Speculare. Lenta, ma anche veloce, nell’attualizzazione garroniana: se vogliamo possiamo con un incantesimo rendere rapido ciò che non lo sarebbe. Basta scoprire come. Padronanza ulteriore acquisita dal burattino che cresce: la gestione del tempo (e questa volta il riferimento alle alterazioni cronologiche di Alice forse è un tributo).

Studio, lavoro.

Non si può pensare di completare la propria maturazione se non integrando le due dimensioni. Pinocchio deve sì studiare, per superare uno standard che lo condannerebbe a una norma affamata, discriminante. “Devi imparare!” (lode brechtiana dura e commovente, per la fede in un assunto che troppo presto si è compreso non bastare), perché devi prendere il potere. Seee… Ma insomma, tutti devono faticare, e accettare di fare il peggio, come animali, se serve. Però non deve bastare. Tocca andare oltre, anche se questo significa dover passare da una altrettanto umiliante gavetta pressoché schiavile: il maestro è più vessatorio di Giangio, che a sua volta è duro con Pinocchio ma solo, ancora una volta, per fame. Non c’è posto per la beneficenza, se tu per primo non hai mai avuto sconti. E i miei bambini sono bambini come te, Pinocchio, e tranquillo che faccio lavorare anche loro.

Circhi.

Il circo, come sempre, metafora usurata ma sempre affascinante, è la sintesi circolare della vita. La fatina deve esserci. Il giro delle cose deve passare da quella volta. Gira la carta. Rimuori, rinasci.

Morte, rinascita, appunto.

Si nasce quando la vita ha dato picche (è la forza generatrice di Geppetto, l’ultimo atto). Si muore quando la vita ci inganna, col tramite dei suoi cecchini del sentimento e della fiducia (il gatto e la volpe, l’omino di burro). Ma poi, una volta compreso, ti conosco mascherina. E avanti. La nuova possibilità di tornare a essere felici passa dalla conoscenza, e dalla coscienza di come stanno davvero le cose. Social catena di leopardiana memoria. Tale processo genera solidarietà fra tutti coloro che sono soggetti a un comune destino. Buttala via…

Gioventù, senilità

La differenza passa dal sentirsi ancora capaci di sfidare la sorte. Di provarci, di crederci a discapito di tutto quello che sembra dirci smetti. All’inizio Geppetto è in qualche modo “giovane”, perché ancora in possesso di quell’energia vitale che autorizza al lancio del cuore oltre la siepe. Realizzerò il più bel burattino (e ci sta che anche in questo caso uno dei moventi affondi nella fame, dato che nel film l’idea si collega alla prospettiva di un guadagno). Gli batte il cuore? Si, un po’ è strano, ma manco tanto: io ci ho messo il mio, di cuore. Dunque perché non potrei avergli insufflato la vita? Padre generante, mica tanto diverso da qualsiasi altro padre. Dunque Geppetto è vivo, vivificante. Poi però muore poco a poco, quanto più il suo estremo unico fior sente perduto. Il ritrovarsi è a carte invertite. Il padre è stanco. Più che appagato dal ritrovarsi. Cos’altro conta? Si può continuare a vivere di privazioni, in una pancia di pescecane, è uguale. Pinocchio no, è ormai pronto a osare, perché ha aspettative migliori, è il suo turno, E’ forte, cresciuto, trainante. Per sé e per chi dispera. Vecchi e tonni predigeriti.

Del trucco di Mark Coulier (ma anche dei costumi di Cantini Parrini) non è possibile dire altro e meglio di quanto osservato dai più critici cultori del settore, ancora prima che il film uscisse nelle sale. Tenerezza, fantasia, credibilità, inquietudine, incanto, reminiscenza, piacere. Per atmosfere alla Tim Burton, ok, ma all’italiana, ovvero con un carico da 11 di storia e cultura popolare, figlio di un immaginario stratificato di indiscutibile levatura di cui si nutre l’incantevole scenografia di Dimitri Capuani, dal quale giustamente Garrone non si allontana.

Colonna sonora minimale e sontuosa, ennesimo ossimoro vincente di un film che nella conciliazione dei contrasti si fa forte. Marianelli sceglie strumenti che chiaramente rimandano al mondo popolare, con rispetto e grande misura. Con una citazione subliminale del capolavoro musicale di Carpi che ha contribuito a rendere la serie televisiva di Comencini memorabile.

Ognuno dei grandissimi attori presenti nel film sublima sé stesso; Benigni, Proietti, Ceccherini, Papaleo… Come se fossero stati scelti esattamente al momento giusto delle loro vite per poter incarnare una specifica caratteristica dei personaggi cui fatalmente, definitivamente verranno associati, perché ci sono camei che possono diventare stimmate gloriose. Mentre Federico Ielapi è un tenerissimo bambino burattino burattino bambino, e forse lo sarà per sempre come accaduto ad Andrea Balestri. Oppure no (c’è da augurarglielo).

Come parlano bene, i personaggi di questo Pinocchio, risultando semplici, credibili e mai forzati! E tuttavia per buona parte si tratta di brevi dialoghi polisemantici: se ti fermi un attimo a ripensarci capisci, procedi, cogli un oltre, due altrove…

Garrone non nasconde nulla. E non ostenta.

Solo, ha scelto di tagliare due dei tre cani presenti nel romanzo: il sostituto alla catena e il persecutore salvato e salvante (Melampo e Alidoro). Mentre il terzo, can-barbone cocchiere della Fata, compare fuggevolmente in una scena, quando nell’accomiatarsi da Pinocchio la prima volta, la Fatina gli si rivolge facendolo voltare per un attimo verso il pubblico: “Medoro, saluta Pinocchio!”.

Insomma, questo romanzo muore e rinasce, come il suo protagonista, come lui mutando forma e direzione, prendendo strade che in alcuni casi portano in luoghi felici, come quello in cui ci ospita Garrone. Senza che ci crescano le orecchie, e nemmeno il naso. Solo il cuore.