CINEMA E SOCIETA’, di Riccardo Rosati (recensione di Catello Masullo)

CINEMA E SOCIETA’, di Riccardo Rosati (recensione di Catello Masullo)

 

C’e’ sempre una prima volta. Per la prima volta l’autore di un testo di contenuti cinematografici scrive al Cinecircolo Romano, che mi onoro di presiedere, chiedendo di recensire il suo libro sulla testata giornalistica online del Cinecircolo, QUI CINEMA. Il Cinecircolo ne e’ onorato, oltre che piacevolmente sorpreso. Incuriosito, mi sono personalmente assunto l’onore di stilare la richiesta recensione. In effetti ho letto molti tomi e saggi di cinema, ma mai, almeno non per intera, una raccolta di recensioni di film. Le raccolte di recensioni, per solito, mi limito a sfogliarle, a consultarle, cercando un approfondimento su uno speciale film o tema. Anche sotto questo aspetto, si tratta di una prima volta. Scrivendo molte recensioni di film (in alcuni anni ho sfiorato le 500 recensioni pubblicate), leggo spesso le critiche dei colleghi. In genere scrivo di getto la mia, con l’idea che mi sono fatto, senza leggere nulla , per non farmi influenzare. Poi, però, sento spesso il desiderio di confrontare il mio giudizio con quello degli altri (quando il tempo me lo concede). Devo constatare che dopo tali letture raramente cambio il mio parere. Il critico cinematografico in effetti appartiene ad una categoria di giornalisti specializzati che finiscono spesso con il convincersi di essere i migliori di tutti. E che il loro sia l’unico e migliore giudizio che si possa esprimere su quel film. Devo però notare che mi pare un mestiere in via di estinzione. Personalmente continuo, da decenni, a vedere e recensire, tutti gli anni, una 80na di film della Mostra di Venezia, una 50na della Festa di Roma, a partecipare a tutte le anteprime stampa (anche tre al giorno), senza veramente capire perché le case di produzione/distribuzione si ostinino ancora ad organizzare queste anticipate per la stampa, dato che lo spettatore pagante, sempre di più, per decidere se andare a vedere un film al cinema, lo fa solo in base al trailer che vede in tv, o, più raramente, con il passaparola di amici. Sempre meno, o quasi mai, leggendo la valutazione critica di un esperto, pubblicata sulla stampa cartacea (i cui spazi dedicati si riducono ogni giorno di più) oppure online. Da qualche anno tengo nelle scuole superiori dei corsi in Alternanza Scuola Lavoro, abbinati al “Premio Cinema Giovane & Festival delle Opere Prime” che e’ uno dei fiori all’occhiello dell’attività culturale del Cinecircolo Romano. Questi corsi intenderebbero avviare gli studenti alla professione di critico cinematografico. Nelle prime lezioni avverto gli studenti che non si tratta della professione più ambita. Lo faccio utilizzando citazioni autorevoli. François Truffaut: “Ognuno ha due mestieri: il proprio e quello di critico cinematografico”. Groucho Marx: “Ricordo il giorno in cui mio figlio Arthur, che allora aveva 7 anni, rifiutò di vedere il nostro primo grande successo, “The Cocoanuts”, perché non c’erano sparatorie. La cosa mi depresse, non tanto perché non gli era piaciuto il film, quanto perché temevo che da grande avrebbe fatto il critico!”.  Woody Allen: “Quale pensi fosse il significato della Rolls Royce?”. E l’altro gli risponde : “Io credo che rappresenti la sua macchina!”. “Stardust Memories” (1980), Elia Kazan, che definisce il critico “un eunuco che passa il suo tempo nell’Harem a contemplare quello che gli è precluso e proibito”, Samuel Taylor Coleridge: “I critici sono di solito persone che avrebbero voluto essere poeti, storici, biografi, ecc., hanno messo alla prova il loro talento, e non hanno avuto successo!”, John Osborne: “Chiedere ad uno scrittore cosa pensa dei critici e’ come chiedere ad un lampione cosa pensa dei cani!” , Marcello Martinez Gomez: “Il critico indovina ciò che l’autore non cercava di dire!”, George Bernard Shaw: “I critici non sono diversi dagli altri uomini: vedono quello che cercano e non quello che sta sotto i loro occhi!”.

Prima di entrare nello specifico del testo da recensire, mi piace fornire all’eventuale lettore qualche nota biografica sull’autore. In genere l’amico Google mi fornisce tutte le notizie del caso. Nel caso di Riccardo Rosati, però, non ho trovato notizie circa l’età, gli studi di formazione, le attività lavorative precedenti, ecc. Forse anche perché fa la parte del leone sul web l’omonimo Prof. Riccardo Rosati, Gastroenterologo. Chirurgia endocrina, Chirurgia gastroenterologia, Chirurgia generale, Oncologia, presso IRCCS Ospedale San Raffaele. Ho trovato però le seguenti notizie sulla corposa e variegata produzione letteraria : “RICCARDO ROSATI. Studioso di cinema. È bilingue italiano-inglese e da anni studia anche l’Oriente. Ha al suo attivo numerosi saggi e articoli su pubblicazioni italiane e straniere e ha preso parte a conferenze in Italia e all’estero. Con Starrylink ha pubblicato: La trasposizione cinematografica di Heart of Darkness (2004), Nel quartiere (2004), La visione nel Museo (2005). Ha anche scritto: Museologia e Tradizione (Solfanelli, 2015). Sue monografie sul Giappone sono: Perdendo il Giappone (Armando Editore, 2005); con Arianna Di Pietro, Da Maison Ikkoku a NANA. Mutamenti culturali e dinamiche sociali in Giappone tra gli anni Ottanta e il 2000 (Società Editrice La Torre, 2011); con Luigi Cozzi, Godzilla 2014 (Profondo Rosso, 2014). Ha inoltre co-curato il testo Nihon Eiga – Storia del Cinema Giapponese dal 1970 al 2010 (csf edizioni, 2010). Negli anni, ha comunque continuato a fare ricerca anche nell’ambito della anglistica, della francesistica e della museologia”.

E veniamo, finalmente, a “Cinema e Società”, Tabula Fati Editore, 173 pagine, 15 euro, finito di stampare nel Gennaio 2020. Il libro e’ diviso in due sezioni. La prima e’ una raccolta di recensioni, suddivisa a sua volta in due sezioni, la prima definita “Cinema Mimetico”, con 32 film commentati, e la seconda, “Altre Visioni d’Oriente”, con 15 film. La seconda parte del libro e’ dedicata a 6 saggi più propriamente detti, di media estensione, con pregevoli approfondimenti, su singoli film o tematiche, tutti di origine o ambientazione orientale. Materia nella quale l’autore e’ tra i più grandi esperti del nostro paese ed alla quale ha dedicato numerosi ed autorevoli testi pubblicati in precedenza. In Appendice viene poi riportato un pregevole saggio di Stefano Coccia dal titolo “Zardoz, ovvero il fardello dell’immortalità”.

Provo un po’ di imbarazzo a recensire una raccolta di recensioni di un così prestigioso autore. Però tale recensione e’ stata esplicitamente richiesta e, dopo tutto, mi sono offerto io di redigerla, senza che nessuno me lo abbia imposto. L’imbarazzo tuttavia rimane. Dal momento che a scrivere un giudizio globale, articolato, mi sentirei del tutto inadeguato, nel confronto a distanza con la straordinaria “Presentazione” che e’ riportata nel testo, redatta in modo impareggiabile da Pier Luigi Manieri, e con la altrettanto straordinaria “Postfazione” di Francesco Santarelli.

Mi limiterò quindi a qualche osservazione, saltabeccando tra le note a margine che ho fatto durante la lettura. Per molte delle recensioni, che raccolgono il lavoro di Rosati di un periodo di 15 anni, non ho proprio nulla da dire. Un critico può essere d’accordo, oppure no, con un giudizio di un altro critico. In genere mi sono trovato, per una larga maggioranza degli scritti in esame, a concordare con il giudizio espresso. Alcuni passaggi li ho trovati magistrali. Come quello sulla cinematografia di uno dei grandissimi : “Le opere di Lumet, più che essere guardate, vanno “assaporate”, alla stessa stregua di un sofisticato e invecchiato vino rosso. In esse vi e’ la riflessione, l’indugiare sulla psicologia dei protagonisti; tutto sembra immancabilmente “in pausa”, senza un inizio e una fine, solamente il piacere del racconto, questo e’ il Mestiere nel cinema di Sidney Lumet”. Questa frase e’ posta ad esergo finale della recensione di “Prove apparenti”, del 1996. E, con ogni probabilità, si tratta di una delle “aggiunte” che l’autore confessa nella introduzione di aver fatto alla fine di alcune delle recensioni, rileggendole dopo alcuni anni, in occasione della stampa della raccolta.

Nonostante l’autore si scagli programmaticamente, sin dalla “Introduzione”, contro i “critici festivalieri”, colpevoli di “gusti individuali, i quali in molti casi sfociano in una ostentata faziosità”, in alcuni dei suoi commenti critici proposti, sembra cadere proprio nell’oggetto della denuncia. Ad esempio per “Scontro di Civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio”, scrive :”... sarebbe stato doveroso non perdersi nella ormai trita e ritrita visione radical chic che rivela sempre una arrogante simpatia verso la cultura islamica…”. Oppure come per “Il Segreto di Italia”, per il quale scrive : “… non abbiamo dubbi che la critica benpensante non sarà affatto tenera verso questa coraggiosa pellicola. Effettivamente sono pochissimi coloro che si interessano di cinema, senza però idolatrare la dottrina comunista…”. ed ancora “… Renzo Martinelli, uno dei pochi registi di destra”. Ed ancora, per il film “Youth”, di Paolo Sorrentino , scrive : “Vi e’ in lui un palese disagio nei confronti di ciò che e’ brutto ed eccessivamente realistico, da qui la poca simpatia che egli riscuote nell’ambito della sinistra italiana…”, e ”D’altra parte, Sorrentino la storia del cinema l’ha già fatta, Moretti no e mai la farà”. Rosati si dimostra molto deciso e netto nei suoi giudizi. Davvero “tranchant”. Ma questo bisogno di etichettare mi sembra francamente mal riposto, e, soprattutto, non essenziale al giudizio critico. Mi ha fatto venire in mente quella formidabile canzone di Giorgio Gaber, in cui divideva le cose, gli oggetti e le azioni della vita quotidiana tra “sinistra” e “destra”. Del tipo la doccia e’ di sinistra il bagno nella vasca e’ di destra. I jeans sono di sinistra, ma sotto la giacca tendono a destra. E, magistrale, per la specie : “i film ultimamente tendono a destra, (pausa), se annoiano sono di sinistra!”. E poi, affermare che Nanni Moretti non rappresenti un pezzo della storia del cinema italiano, mi pare, come minimo azzardato.

Dato che ci siamo, non sono nemmeno d’accordo su questo giudizio estetico sulla attrice (dalla recensione di “Don Jon”) : “Scarlett Johansson risulta come sempre inadatta nei ruoli della bomba sexi dal super fisico, giacché ne e’ priva, ma i registi sembrano proprio non capirlo”. Ed anche in questo giudizio, legittimo, naturalmente, mi pare di trovare contraddizione nelle linee programmatiche poste ad esergo iniziale dallo stesso autore, quando afferma “Infine, ci auguriamo che i nostri pensieri eterodossi possano almeno incoraggiare a considerare la Settima Arte quale un medium comunicativo aperto a tutti, e non un semplice feudo della critica specializzata, che detta canoni perlopiù non condivisi dal pubblico”. Mi pare che il giudizio del pubblico sulla burrosa ed attrattiva femminilità di Scarlett Johansson siano di segno opposto a quello dell’autore. Ed io mi schiero con il pubblico, per la specie. A proposito della Johansson, per associazione di idee, ho trovato contraddittorio il saggio su “Lost in Translation”. In quarta di Copertina del libro si legge: “… in questo libro si incoraggia nel dotarsi di un parere personale, nell’avere fiducia nei propri occhi e sensazioni, ignorando la opinione precostituita di certa critica paludata e irreggimentata che non di rado tende a raccontare il “proprio” film e non quello del regista”. Affermazione che appare in palese contraddizione con il richiamato saggio sul celebre film di Sofia Coppola. L’Autore, infatti, accusa la regista di commettere “l’errore di non dire quasi nulla su questo complesso paese” (il Giappone, ndr.). Ed ancora stroncando : “Il film tradisce le aspettative (di chi?, ndr.)… Peccato davvero, poiché di per sé questo poteva essere uno spunto eccellente per mettere a confronto la cultura nipponica con quella occidentale…”. Ed ancora : “…quello che avrebbe dovuto o potuto essere Lost in Translation…”. “…ci viene mostrato solo quello che un turista qualunque noterebbe a prima vista come immediatamente curioso, o, ancora peggio, strambo. La diversità tra i nostri mondi, che solo un rapporto diretto con i giapponesi rivelerebbe nella sua pienezza, manca completamente nella storia… questo film si conceda volutamente allo stereotipo culturale, probabilmente a causa della inesperienza della sua troupe e in primis della regista. Si ha la sensazione di essere davanti a una specie di saggio di fine corso in una scuola di cinema…”.  La sensazione, netta, e’ che Riccardo Rosati, profondo conoscitore ed estimatore del Giappone e della cultura giapponese, si aspettasse un film totalmente diverso. E ritiene sbagliato che Sofia Coppola abbia fatto questo film come, invece, esattamente, lo voleva fare lei. Mentre lo avrebbe dovuto fare come voleva Rosati. E cadiamo proprio in pieno su lamentato e grave difetto “di certa critica paludata e irreggimentata che non di rado tende a raccontare il “proprio” film e non quello del regista”. E dire che lo stesso Rosati, nel saggio riconosce che: “…molti anglosassoni a Tokyo si comportano come i due protagonisti… questa pellicola rappresenta un preciso resoconto di come alcuni stranieri vivano e percepiscano il Giappone, essendone una parte passiva e scarsamente integrata”. Come e’ ovvio per due persone che sono solo di passaggio per il Giappone e che vivono una storia che avrebbero potuto vivere a Mosca come a Città del Capo. E, infatti, lo stesso Rosati riconosce anche che : “…la regista abbia forse sentito la necessità di ambientare l’opera in un contesto che rappresentasse un “altro” opposto alla cultura americana, in modo da enfatizzare il senso di straniamento e solitudine dei protagonisti”. Fino ad arrivare (finalmente) a comprendere, alla fine del saggio, che la regista: ”ha affrescato una intensa e coerente riflessione sulla solitudine, vissuta in due momenti cruciali della vita umana : la fine della giovinezza per Charlotte, e l’inizio della vecchiaia per Bob… riteniamo che allora Lost in Translation abbia senz’altro qualcosa di molto interessante da dire!”. Un giudizio, questo si, condivisibile, che ha, però, poco a che fare con “una specie di saggio di fine corso in una scuola di cinema…”.

Gli altri saggi della seconda parte, sono invece magistrali. Con una sapiente, dotta e colta analisi del cinema orientale, di raro riscontro. E’ il caso del cinema del grande Nagisa Oshima, che rappresenta magistralmente “... l’alienazione della gioventù post-atomica giapponese e i fallimenti dei movimenti di sinistra, schiacciati dalla deriva capitalistica del paese, come anche il forte rifiuto del passato imperialista del Giappone”.  E ancora “...metafora delle nostre società’, dove la sopraffazione va di pari passo con la pietà : il fango con la grazia”.  “... visione artistica della crudeltà, in cui l’anticonformismo e la protesta sono il sale della vita, dove però la ribellione conduce a un nulla di fatto, e la esistenza resta sempre e comunque priva di gioia e speranza per il futuro”.

In definitiva “Cinema e Società”, di Riccardo Rosati, e’ un libro prezioso, per cinefili e non, con un punto di vista originale e non omologato, che vale la pena leggere. .