Richard Jewell di Clint Eastwood, recensione di Francesco Sirleto

Ritorno al cinema: Richard Jewell di Clint Eastwood, recensione di Francesco Sirleto
L’ultimo “gioiello” di un intramontabile e (forse) immortale regista
Francesco Sirleto – 29 Aprile 2021
“Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K. Perché senza che avesse fatto nulla di male, una bella mattina lo arrestarono” (F. Kafka, incipit de Il processo).
“Disgraziata la terra che ha bisogno di eroi!” (B. Brecht, da Vita di Galileo)
Visto ieri sera – finalmente e grazie alle riaperture delle sale cinematografiche decise giorni fa dal Governo Draghi – l’ultimo capolavoro dell’intramontabile e immortale (forse no, ma lo sospettiamo fortemente) regista Clint Eastwood: Richard Jewell il titolo.
Mi ero fermato, infatti, a The Mule (Il Corriere, arrivato nelle sale il 7 febbraio 2019), penultima fatica del “grande vecchio”, ma ciò risaliva dell’epoca pre-Covid 19, e pensavo sarebbe stata l’ultima in assoluto. Ma poi l’imperterrito e instancabile Clint ha provveduto a confezionare questo penultimo “gioiello” (in inglese, appunto, Jewell), il cui arrivo nelle sale ha la data del 16 gennaio 2020, più di quindici mesi fa. Ma non mi fu possibile, a causa soprattutto della pandemia e del conseguente lockdown, visionarlo al cinema.
Ho scritto “penultimo” perché, nel frattempo (e nonostante il tremendo infuriare del virus negli USA) quel diavolo di Clint ha provveduto a licenziare Cry Macho (nella versione italiana Viaggio di ritorno, che porta la data dell’anno in corso ma, a quanto mi risulta, ancora non pervenuto nelle sale italiane). Insomma, non si fa in tempo a godere la sua ultima opera, che già è necessario affaccendarsi e prenotarsi per quella successiva.

I ritmi del regista californiano, nonostante abbia superato la novantina (essendo nato a San Francisco il 31 maggio 1930) e sia sul punto di compiere (tra circa un mese) i 91 anni, sono veramente infernali; i suoi film da regista, compreso l’ultimo ancora non visto, assommano ormai a 39: una cifra impressionante! Se poi consideriamo che tutte le sue opere, quale più quale meno, posseggono una “virtù” estetica di altissimo livello, non si può non rimanere esterrefatti di fronte a simile straordinaria prolificità e qualità.

Richard Jewell
Questo Richard Jewell, come molte altre pellicole del nostro, è basato su una storia vera: quella di un umile “vigilante”, o guardia giurata che dir si voglia, che, in occasione di un concerto svoltosi ai margini delle Olimpiadi di Atlanta del 1996, dimostrando coraggio e determinazione davvero fuori del comune, scoprì una bomba nascosta in uno zaino posto sotto una panchina e, dato l’allarme e prodigatosi per allontanare la folla, riuscì a salvare decine di persone da un’esplosione che causò due vittime e circa un centinaio di feriti.
Richard (caratterizzato da un fisico non proprio atletico, e da una eccessiva e ingenua fiducia nelle autorità e nei saldi principi di “Legge e Ordine” su cui si fonda la democrazia americana) divenne, con questo gesto, l’eroe mediatico del “giorno”, con conseguenti interviste televisive e proposte di traduzione libraria della sua edificante storia. Ma, appunto, la sua gloria durò, ahilui! e per ironia della sorte, un solo giorno. Immediatamente, infatti, gli agenti dell’FBI, titolari dell’indagine, sulla base di certe “stranezze” del povero Richard (l’obesità, il suo stato civile di celibe ancora convivente con la madre, la sua passione per le armi, per la caccia e per il tiro a segno, e altre ancora), lo posero, quasi a sua insaputa, sotto i riflettori di un’indagine a senso unico avente l’obiettivo di dare subito un volto e un nome all’ignoto attentatore, così da riportare alla tranquillità un’opinione pubblica atterrita e, tra l’altro, incerta e dubbiosa circa l’effettiva capacità delle forze dell’ordine di evitare qualsiasi altro possibile attentato.
Al “teorema” formulato dall’FBI si aggiunse, con conseguenze ancora più dirompenti per la vita quotidiana e la salute psichica del protagonista, anche il comportamento dei media che, fiutato lo scoop e gli effetti straordinari che la vicenda poteva avere sull’audience del pubblico americano (non tutti i giorni capita la fortuna di poter trasformare un eroe in un mostro), si gettarono a capofitto sulla storia, ponendo l’assedio alla sua abitazione, rivoltando come un pedalino tutta la sua biografia, cercando ogni minimo appiglio pur di poter accreditare e sostenere la tesi di un Richard squilibrato, fanatico delle armi e tendenzialmente serial killer e terrorista. Insomma, una vicenda esemplare, che ne richiama innumerevoli altre: quella cioè di un “povero diavolo” incastrato e stritolato negli ingranaggi di un uso arbitrario del potere poliziesco e di un altrettanto folle e irrazionale meccanismo mediatico che, pur di aumentare il numero dei lettori della carta stampata e degli spettatori dei talk-shows televisivi, non esita a mettersi sotto i piedi i diritti, costituzionalmente garantiti, della persona.
Contrariamente a come vanno e come si concludono di solito queste cose (cioè con il suicidio del malcapitato), nella vicenda reale di Richard Jewell, l’ingenuo protagonista ebbe la incredibile fortuna di scegliersi un ottimo avvocato, Bryant Watson, il quale, con intelligenza e ricorrendo a tutte le astuzie del mestiere, riuscì a trarlo dai guai: dopo ben 88 giorni di indagini a vuoto, perché a senso unico, tanto l’FBI quanto i media dovettero riconoscere l’inconsistenza di tutti gli indizi (molti dei quali inventati di sana pianta) a carico di Richard e proscioglierlo da qualsiasi imputazione.
Un ruolo molto importante lo giocarono, ai fini della positiva conclusione della faccenda, due donne: la mamma di Richard, umile e spaurita ma fermissima nel difendere a spada tratta l’innocenza del figlio, e la segretaria russa dell’avvocato Watson, la prima ad accorgersi, sperimentalmente, dell’impossibilità materiale, per Richard, di aver commesso il reato.
Il vero colpevole dell’attentato fu arrestato dopo sette anni, mentre il vero Richard, diventato nel frattempo poliziotto, morì a soli 44 anni (2004), stroncato dal diabete.

Il film di Clint Eastwood, in linea con una serie di altre pellicole tratte dalla realtà americana dei nostri tempi, racconta la vicenda di Richard con serietà e rigore documentari, senza indulgere ad “effettacci” di sorta, riuscendo però ad avvincere e coinvolgere l’attenzione (e la tensione) dello spettatore dall’inizio alla fine, e suscitando anche un’ondata di sottile ma solida empatia nei confronti dello sprovveduto protagonista. E ciò nonostante il regista faccia di tutto per sottolineare i punti deboli, le fragilità, le insicurezze, la mancanza di autostima, che caratterizzano la personalità di Jewell. E’ soprattutto il suo “mammonismo”, la sua dipendenza dalla mamma Barbara, ad essere messo in evidenza e rimarcato senza pietà dalla sceneggiatura. Tuttavia, è proprio questo lato “oscuro” che ispira tenerezza e induce gli spettatori a schierarsi dalla sua parte e a sentire come ripugnanti e immorali le maldestre manovre degli agenti FBI, nonché l’atteggiamento da avvoltoi dei giornalisti e dei commentatori televisivi.

Il cast
All’ottima riuscita del film contribuiscono, oltre alla ormai sperimentata ed elevatissima bravura del regista, anche l’ottima interpretazione di attori quali Paul Walter Hauser (perfetto nella sua sensibile e misurata interpretazione del protagonista Richard Jewell); l’eccellente Kathy Bates (a nostro avviso l’autentica e commovente protagonista della vicenda) nella parte di una sofferente, trepidante ma nello stesso tempo intrepida Barbara, mamma di Richard; il bravissimo Sam Rockwell nella parte dell’avvocato Watson; completano il cast Jon Hamm e Olivia Wilde, nella parte dei “cattivi”, cioè l’agente FBI che le tenta tutte pur di incastrare il malcapitato Richard e la giornalista d’assalto che, pur di costruire lo scoop attraverso l’abuso di notizie riservate, non esita ad impiegare il suo corpo e la sua avvenenza quali mezzi di corruzione.

Attraverso questa asciutta ed essenziale narrazione della storia dell’eroe trasformato in mostro (una storia dal sapore kafkiano, che richiama alla mente l’indagine alla quale viene sottoposto il protagonista de Il Processo) Clint sembra volerci invitare a condividere il suo radicato pessimismo sull’odierna società americana; una società segnata dalla violenza, dalla paura delle varie “diversità”, dalla solitudine e dall’insicurezza dell’individuo, dalle contraddizioni e dalle storture nella distribuzione della ricchezza, dagli abusi dei vari centri di potere.
Una società che, pur avendo “bisogno di eroi” (“disgraziata la terra che ha bisogno di eroi”, come direbbe Brecht) a causa della presenza, purtroppo, di un numero esorbitante di mostri intenti a produrre, con frequenza impressionante, una sequenza interminabile di stragi e massacri, non ci mette molto a trasformare mediaticamente i pochi umili eroi, che di tanto in tanto si affacciano timidamente alla ribalta, in mostri sanguinari.

Per finire: ho letto, qua e là sul web, alcune recensioni che, pur riconoscendo la qualità di Richard Jewell, avanzano il sospetto che Clint abbia voluto realizzare un film “ideologico”, diretto cioè contro una parte politica (i democratici) e a tutto vantaggio della propria parte politica (i repubblicani). A mio avviso è un’accusa ingenerosa e fondamentalmente ingiusta.
Clint Eastwood è, a mio avviso, un artista convinto che l’arte (e il cinema in particolare) sia un formidabile strumento di conoscenza della realtà, a partire dai suoi aspetti più oscuri e negativi. E, a dimostrazione di questa sua idea, vi sono i molti film realizzati soprattutto negli ultimi vent’anni. Clint, inoltre, è altrettanto convinto che solo attraverso la conoscenza e anche la partecipazione emotiva, molto più che mediante gli appelli moralistici, sia possibile un cambiamento in positivo della società e, di conseguenza, anche dell’individuo. E poi non bisogna assolutamente dimenticare che il termine “ideologia” sta a significare, nella storia della filosofia, “visione deformata della realtà”. Proprio il contrario di quanto, invece, da moltissimo tempo, si prefigge, con il suo onesto lavoro di artista, il regista di San Francisco: offrire allo spettatore una rappresentazione del reale che sia il più possibile vicina al vero.

Film: Richard Jewell, regia di Clint Eastwood; interpretato da Paul Walter Hauser, Kathy Bates, Sam Rockwell, Jon Hamm, Olivia Wilde (USA, 2020)