Bergman ed Hanake: Madre e figlia nel Cinema, di Armando Lostaglio

      Bergman ed Hanake

                                   Madre e figlia nel Cinema

di Armando Lostaglio

Tu non sei più vicina a Dio / di noi; siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende benedette le mani. / Nascono chiare in te dal manto /luminoso contorno:                                                                                                                                             io sono la rugiada, il giorno, / ma tu, tu sei la pianta.                                         I versi di Rainer Maria Rilke in Le mani della madre esplicano il rapporto materno nella sua spirituale avvenenza.                                       Il rapporto madre figlia ha caratterizzato molta letteratura, saggi, e tanto Cinema. Sono molti i film che si possono analizzare, nelle diverse declinazioni, mediante cineasti che hanno saputo incidere e rileggere la storia, con la propria personalità e il proprio talento; con la propria capacità di contemplare e leggere il presente.                                                                                                          Per Simone Weil: Tutto ciò che è geniale, eroico o santo procede dalla contemplazione.                                                                                                      Per Freud il ruolo della madre rimane quello di primo soccorritore. Nella madre de La Pianista di Michael Haneke (2001) e in quella di Ingmar Bergman di Sinfonia d’autunno (1978) viene meno questo ruolo: sono madri assenti e le proprie figlie ne restano segnate.                                                                                                    La madre di Erika (Isabelle Huppert) una matura Annie Girardot, vive in una dimensione claustrofobica ed intessa con la figlia una relazione di possesso e di maniacale presenza, più che di protezione affettiva. Lei vive in un mondo tutto suo, da docente pianista, in piena autonomia, scaricando le sue angosce (dell’abbandono, conseguenza dell’ossessione materna) nella pretesa perversione, nel feticismo e nel masochismo. Non riesce ad instaurare rapporti normali con l’altro sesso, se non improntati a violenze e autolesionismo. Claustrofobica resta la sua chiusura al mondo, che la regia riesce a manifestare con sensibili cromatismi scenici. Palesano in trasparenza le frustrazioni cui sono spesso circoscritte le donne nel cinema degli ultimi decenni. La mancanza di amore da parte della figura materna “che non ha saputo o voluto trasmettere alla figlia l’eredità affettiva e sapienziale del materno.” Erika esplica la propria passionalità attraverso la musica e attraverso un rapporto sadomasochistico con il proprio corpo che si estende anche ad un partner occasionale. In Bergman, Liv Ullman (la figlia) dissente da sua madre (Ingrid Bergman), scagliandole ogni accusa per la sua mancata realizzazione. La madre ha fatto della sua vita di donna l’esperimento totalizzante della esistenza di pianista apprezzata nel mondo. A scapito delle figlie, della famiglia, di quanto la maternità le potesse offrire anche in termini affettivi. La professione e la carriera innanzitutto. La figlia diventa paradossalmente madre di sua madre, accorta e segnata da esperienze familiari dure e difficili. Accudisce persino sua sorella, portatrice di handicap. La declinazione manichea della femminilità: madre=bene e donna=male, viene sovvertita in queste due pellicole singolari che abbiamo voluto mettere a confronto. Non tanto per il ruolo della musica, (e specificamente del ruolo di pianista che vede la madre in Bergman e la figlia in Hanake), quanto per il clima chiuso e conflittuale dei rapporti fra madre e figlia: isole in un arcipelago nel quale non comunicano pur manifestando bisogno di amore. La madre che dona alla figlia la propria mancanza. Ovvero tenta di donare quello che non ha. “Il mondo senza di me, per te, sarebbe lo stesso?” sembra chiedere la madre; mentre il mondo con un figlio non sarà più lo stesso: il volto della madre apre e chiude il volto del mondo.