LA CITTÀ DELL’APOCALISSE, recensione di Francesco Sirleto
SICCITÀ, film di Paolo VIRZÌ, 2022.
Con Silvio Orlando, Valerio Mastandrea, Elena Lietti, Tommaso Ragno, Claudia Pandolfi, Vinicio Marchioni, Monica Bellucci, Diego Ribon, Max Tortora, Emanuela Fanelli, Gabriel Montesi, Sara Serraiocco, Emma Fasano, Paola Tiziana Cruciani, Gianni Di Gregorio, Massimo Popolizio.
Soggetto e sceneggiatura dello stesso regista,  in collaborazione con Paolo Giordano, Francesca Archibugi, e Francesco Piccolo. La fotografia, efficacemente pittorica e volutamente straziante, è di Luca Bigazzi.
“Siccità”, visto ieri sera presso il cinema Caravaggio con gli amici del Cinecircolo romano, è un film che crea intenzionalmente disagio e brutti pensieri nello spettatore, perché lo riporta ai giorni più tristi e bui della pandemia, aggravata e resa ancora più angosciante e avvilente dalla sua concomitanza con uno degli effetti più spiacevolmente palpabili dei cambiamenti climatici: la siccità.
Una siccità che a Roma (città nella quale si svolgono e s’intrecciano le differenti storie narrate nel film) dura ormai da tre anni.
La sete, e la conseguente ricerca dell’acqua (con i prevedibili fenomeni di accaparramento e di speculazione), unita ad una strana e del tutto nuova epidemia, caratterizzata sintomatologicamente da letargia e febbre alta, e trasmessa all’uomo dalle blatte (che invadono strade e case, penetrando e insediandosi in tutti i quartieri e in tutte le case, senza alcuna distinzione a livello sociale), cambiano e/o accentuano i lati oscuri e riprovevoli della psiche e dei comportamenti degli individui.
Individui (non più persone, ormai) arroganti, prepotenti, pronti all’inganno e al tradimento, così come alla violenza e alla menzogna quali forme abituali di scambio sociale e familiare: uomini e donne profondamente delusi dalla vita e costretti a lavori ripetitivi e alienanti; giovani che hanno perso ogni illusione e ogni speranza nel futuro (se mai l’hanno nutrita) e che neanche in famiglia trovano ascolto e considerazione; assenza totale di tenerezza e di amore, surrogati da rapporti basati su uno scambio sessuale condizionato e modellato dalla rete; una città, Roma, irriconoscibile, nella quale perfino il Tevere è ormai ridotto ad un ammasso di fango secco e melmoso; una città che è ormai diventata un’enorme degradata periferia, una giungla dove ci si muove e si vive all’insegna dell’antico motto “homo homini lupus” e dove la convivenza è diventata una sorta di “bellum omnium contra omnes”; una città che, lungi dall’essere il luogo della grande bellezza, è diventata la metafora di un mondo dominato e sregolato da un turbo capitalismo iperconsumista e omologante eguale a quello preconizzato e descritto mezzo secolo fa da Pasolini; una città, infine, che assomiglia moltissimo alla allucinante e sconvolgente e irriconoscibile Lisbona che fa da sfondo al terribile romanzo capolavoro di José Saramago, “Cecità”.
È questo il mondo, molto vicino purtroppo alla realtà attuale e prossima ventura, descritto nel film di Virzì, un film apocalittico che crea disagio, anche nei momenti nei quali prevale l’ironia, un’ironia amara e sconsolata; un disagio che si avverte anche nei passaggi nei quali prevale un barlume di umanità. Un film ben fatto, apprezzabile su tutti i molteplici aspetti: regia, sceneggiatura, fotografia, commento musicale. Ottima l’interpretazione dei numerosi attori e attrici, tra i quali prevalgono nomi di grande esperienza come Silvio Orlando, Claudia Pandolfi, Valerio Mastandrea.
Un film angosciante, è vero, ma da non perdere assolutamente.