13 assassini, recensione di Riccardo Rosati

13 assassini

 

Genere: storico

Nazione: Giappone

Anno produzione: 2010

Durata: 126’

Regia: Takashi Miike

Cast: Kôji Yakusho, Takayuki Yamada, Yusuke Iseya, Gorô Inagaki, Masachika Ichimura, Mikijiro Hira

Produzione: Toshiaki Nakazawa (Sedic International)

Distribuzione: BIM Distribuzione

Sceneggiatura: Takashi Miike, Daisuke Tengan

 

<b>Il dovere di proteggere dal male</b>

Nel Giappone feudale la pace è minacciata dalla violenta ascesa al potere del crudele Naritsugu: fratello minore dell’attuale Shogun. Il giovane e sadico signore uccide e violenta a piacimento, poiché sa benissimo che la sua posizione lo pone al di sopra della legge.

Turbato ed esasperato dai sanguinari eccessi di Naritsugu, l’onorevole Doi, alto ufficiale al servizio dello Shogun, fa segretamente appello al samurai Shinzaemon Shimada per far assassinare il malvagio signore. Lo stimato samurai, indignato dalle vili atrocità commesse da Naritsugu, accetta di buon grado la difficile missione, reclutando al suo fianco un gruppo di dodici audaci guerrieri. Insieme decidono di tendere un’imboscata a Naritsugu durante il suo annuale ritorno al proprio feudo dalla capitale Edo, ben consapevoli che potrebbe essere la loro ultima missione…

 

<b><Quanti veri samurai ci sono ancora in giro?</b>

<i>13 assassini</i>, in concorso all’ultimo Festival di Venezia, è un remake dell’omonimo film diretto da Eiichi Kudo nel 1963. Rielaborata  a quasi mezzo secolo di distanza, questa storia ci viene proposta dal sempre discusso Takashi Miike con un gusto postmoderno, dunque non allineato con particolari teorie estetiche e culturali, che ricorda il cinema di Quentin Tarantino, dove del pulp si è fatta quasi una religione. Il regista giapponese con la sua solita furia iconoclasta racconta una vicenda intrisa sì di violenza, ma anche dai validi contenuti intellettuali. Riteniamo che Miike possa in qualche modo essere considerato il Tarantino d’Oriente, con quel suo desiderio di cimentarsi con tutti i generi e per la onnipresenza di una macabra ironia nelle sue storie. Rammentiamo inoltre che il regista americano è stato proprio diretto dal collega giapponese nel film <i>Sukiyaki Western Django</i> (2007), mentre Miike è apparso in un cammeo in <i>Hostel</i> (2005, prodotto da Tarantino) e di Eli Roth.

 

Lo stile di Miike è ormai consolidato e riconosciuto, seppur non cessi mai di far discutere. Giustamente accusato in più occasioni di misoginia, visto che in quasi tutti i suoi film sono presenti perversioni sessuali, sodomie e stupri, in <i>13 assassini</i> questo suo lato, a dire il vero alquanto spiacevole, è sempre presente, benché in modo decisamente edulcorato e più sensato. Stavolta la violenza sulla donna non è più fine a se stessa, dunque collegata alla forte misoginia radicata nella cultura nipponica, ma utile per stigmatizzare la folle brutalità Naritsugu. Questo è uno dei tanti elementi che sta a dimostrare come in <i>13 assassini</i>, Miike abbia raggiunto una certa maturità creativa.

 

Il contesto storico è sempre quello tipico dei film <i>jidaigeki</i> (film storici di samurai) e specialmente del sottogenere <i>chanbara</i> (racconti di cappa e spada giapponese), a cui questa pellicola appartiene. Ovvero, siamo verso la fine del periodo feudale, durante gli ultimi stralci dello shogunato Tokugawa (1603-1868). Tuttavia, non ci sono fonti attendibili che documentino la veridicità storica della Battaglia dei 13 assassini. Il film è girato a nella prefettura di Yamagata nel nord-ovest dell’isola di Honshu: la principale dell’Arcipelago.

In questa pellicola Miike sembra ispirarsi chiaramente ad alcuni modelli di successo sia del cinema orientale che di quello occidentale, da <i>I sette samurai</i> (1954) di Akira Kurosawa a <i>Il mucchio selvaggio</i> (1969) di Sam Peckinpah. Per non parlare poi delle moltissime scene girate in interni, un chiaro riferimento allo stile dei più classici cineasti giapponesi, ci riferiamo chiaramente a maestri del calibro di Yasujiro Ozu e Kenji Mizoguchi. Dunque quella di Miike è un’interessante operazione di attualizzazione di un genere che ormai vagava da tempo in una statica consolidazione estetica. La sua opera si afferma come una rivisitazione di tematiche ampiamente sfruttate nella storia della cinematografia, proposte con un taglio squisitamente contemporaneo. Ad esempio, malgrado <i>13 Assassini</i> non sia uno splatter, la presenza di un certo gusto grandguignolesco abbonda, con letteralmente fiumi di sangue a inondare la battaglia finale.

 

L’aspetto che però rende questa pellicola davvero interessante, anche per gli studiosi del Giappone, è l’acuta riflessione sulla fine dei valori collegati al mondo dei samurai. Se è pur vero che il regista nipponico  prenda in giro la cultura samuraica e la sua ferrea e, talvolta, ottusa disciplina, bisogna riconoscere che in questa storia non manca certo una intelligente e competente riflessione sull’imborghesimento dei samurai, cristallizzati in un’estetica cinematografica che sa fondere abilmente ironia e violenza. Forse per la prima volta Takashi Miike, sempre incline a mostrare il lato meno virtuoso del suo paese, compie la più felice delle mediazioni. Da un lato mantiene la sua ostilità verso la disumana gerarchizzazione di stampo confuciano consolidatasi ormai da secoli nella società nipponica, nella quale il singolo viene spesso svilito e annullato; dall’altro però egli mostra un <i>nuovo</i> interesse verso la storia del Giappone.

In conclusione, se elaborato con la serietà e il talento che il regista ha mostrato di avere in questo film, lo strano miscuglio di idiosincrasia e curiosità per le proprie radici porterà con buona probabilità Miike a eccellenti risultati.

 

   Riccardo Rosati