RECENSIONE DEL FILM CENTO DOMENICHE, DI ANTONIO ALBANESE, A CURA DI ROBERTO FALCONE

 

RECENSIONE DEL FILM CENTO DOMENICHE

 

DENARO E CENSO

RECENSIONE DEL FILM CENTO DOMENICHE                                             DI ANTONIO ALBANESE

A CURA DI ROBERTO FALCONE

E’ da poco arrivato nelle sale cinematografiche il film di Antonio Albanese “Cento Domeniche”. Il film narra il dramma di un brav’uomo che perde i risparmi di una vita a causa del fallimento della banca alla quale li aveva affidati. Il film prende spunto dal dramma collettivo che hanno subito i piccoli risparmiatori per le crisi finanziarie intervenute a partire dal 2008.

Questo libriccino non contiene una critica dell’opera d’arte di Albanese, materia della quale non ho competenza. Contiene invece riflessioni di tipo sociale che mi ha ispirato il protagonista del film ed il suo dramma.

Identità e stile di vita di Antonio

 La prima parte del film fornisce il quadro identitario del protagonista, Antonio e del suo mondo. Tutta una serie di particolari ci fanno immedesimare in lui e nel suo  stile di vita.

Antonio ha una chiara identità professionale e ne  rivendica la dignità. E’ un tornitore provetto e  addestra gli apprendisti della fabbrica dalla quale è stato prepensionato. Lo fa senza essere pagato, ricambiando il favore del suo titolare, proprietario di un suolo che egli ha consesso in comodalo ad Antonio, il quale vi coltiva un orto. Un ispettore del lavoro che visita la fabbrica, appreso che Antonio non ha una copertura contrattuale, costringe il titolare dell’azienda ad allontanarlo. Antonio potrà continuare a coltivare l’orto grazie alla generosità del proprietario, ma il suo rapporto con quest’ultimo non è più paritario.

Antonio è’ un bravo giocatore di bocce e passa il tempo piacevolmente con i suoi amici della bocciofila. E’ padre di una brava e dolce figlia che presto di sposerà. Coltiva la sua piccola ambizione di offrirle una sontuosa festa di nozze. Accudisce una anziana mamma affetta da una innocua demenza senile.

La stessa automobile di Antonio, una Volvo station wagon, dignitosa ma anche funzionale, è in carattere con l’identità di Antonio e con il suo stile di vita: onesto, buono, senza pretese ma orgoglioso della propria dignità, in armonia con l’ambiente nel quale si è formato e vi trascorre serenamente la propria vita.

Questo il quadro idilliaco che Albanese traccia nella prima parte del film. Un quadro che mi ha riportato in mente il Truman show di qualche decennio fa.

Il personaggio di Antonio mi ha fatto tenerezza. E’ una figura universale. Alla maggioranza delle persone viene naturale indentificarsi in Antonio. Diventiamo adulti costruendo la nostra identità e, se siamo fortunati e non troppo egoisti o ambiziosi, ne siamo piuttosto soddisfatti. Ci siamo creati una vita gradevole e rispettiamo l’etica corrente. Siamo propensi all’amore e all’amicizia. Abbiamo una ragionevole fiducia nel  prossimo e nel nostro ambiente sociale, così riusciamo a rispettare anche le piccole e grandi ingiustizie, come quella che impedisce ad Antonio di entrare in fabbrica.

Ma la vita ci riserva brutte sorprese, perché il mondo non è quello del Truman Show. Antonio ha una amante, appassionata ma anche orgogliosa della posizione sociale che le deriva dalla sua condizione di donna sposata. Quando essa si rende conto che la sua relazione con Antonio può minacciarla, lo allontana con imprevedibile brutalità. Antonio se ne risente al punto di respingere ogni possibilità di riappacificazione. Antonio è riuscito a superare l’ingiustizia che lo ha privato dell’esercizio della sua professione. Ha superato la delusione amorosa, ma quando apprende che i suoi risparmi sono svaniti, non può accettare il crollo della sua posizione patrimoniale.

Evidentemente il fondamento della sua serenità, delle sue sicurezze, forse della sua stessa identità, era la consapevolezza di possedere una accettabile solidità patrimoniale. L’improvvisa minaccia di un futuro di povertà gli fa apparire la sua vita futura indegna di essere vissuta. Si risente contro gli amici che vogliono aiutarlo e consolarlo nel momento in cui percepisce di essere vissuto sino a quel momento in una illusione. Vuole a tutti i costi parlare con il dirigente bancario che lo ha tratto in inganno. E’ lui che ha sbagliato o è stato tradito?  Nel film non c’è la risposta. Provo qui a proporre la mia.

Chi è Antonio? L’uomo di oggi o un erede del secolo scorso?

L’Antonio del film è nato negli anni 50 del secolo scorso. Ha vissuto i suoi primi trent’anni quando iniziava il declino della lotta di classe e arrivavano una dopo l’altra le ondate della rivoluzione digitale. Si è formato nella cultura ereditata dai gloriosi anni trenta dell’economia della ricostruzione post-bellica, con i suoi valori: libero mercato, meritocrazia, premialità alla professionalità e al lavoro ben fatto. Un mondo nel quale la gerarchia sociale basata sul livello della ricchezza posseduta è resa accettabile dall’esistenza dell’ascensore sociale alimentato da talento, impegno, duro lavoro. Antonio fa affidamento sulla sua professionalità, e si accontenta del livello sociale che ha raggiuto con il suo impegno e con una vita di lavoro. Livello misurato dal suo patrimonio, frutto dei suoi risparmi. Nel film un gruppo di truffati dalla banca manifesta rivendicando il titolo di “risparmiatori” e rigettando quello di “azionisti”, imposto dalla banca.

E’ in questo che possiamo trovare la risposta al dilemma di Antonio: sono io che ho sbagliato o è la banca che mi ha tradito?

Antonio non si è accorto che alla fine del XX secolo abbiamo assistito ad un vigoroso sviluppo dell’industria finanziaria. Ad esso ha dato origine il progresso della tecnologia digitale, o meglio della ICT ( Information Communication Technology )  rendendo globali e velocissimi gli scambi del mercato finanziario. Il progresso tumultuoso della tecnologia digitale, abbinato con l’affermarsi del capitalismo degli stati, ha fatto nascere l’industria finanziaria, quell’industria che produce denaro da denaro, non da creazione di nuove risorse reali per mezzo degli investimenti e del lavoro.

Alla fine del primo quarto del ventunesimo secolo nel mercato mondiale la quantità delle transazioni dell’industria finanziaria ha probabilmente pareggiato o forse superato quella delle transazioni relative a beni e servizi, cioè quelle che possiamo chiamare del libero mercato. Antonio non si è accorto che il denaro ha cessato di essere l’unità di misura di quell’ingrediente che sta alla base della collaborazione fra esseri umani, la fiducia, e ne fa l’unità di misura del credito fra due soggetti economici.

Le persone come Antonio, che sono la grande maggioranza in paesi come il nostro, raggiungono la loro posizione sociale con il lavoro e fondano la propria sicurezza sul risparmio. Ma nel primo quarto del ventunesimo secolo nel mercato mondiale il vigoroso sviluppo dell’industria finanziaria ha fatto sì che la quantità delle transazioni dell’industria finanziaria ha probabilmente pareggiato o forse superato quella delle transazioni relative a beni e servizi, cioè quelle che possiamo chiamare del libero mercato.

Prima che ciò avvenisse, la finanza era al servizio dell’economia del libero mercato. In esso si partecipa ad un gioco win-win. I giocatori, ovvero i contraenti dello scambio, ottengono dallo scambio un aumento delle proprie risorse. Il venditore ha trovato il modo di soddisfare un bisogno del compratore cedendogli un bene che gli è costato meno del prezzo che ne ricava. La differenza fra prezzo e costo è il profitto.

Non è lo stesso gioco quello dell’industria finanziaria. L’industria finanziaria è un gioco a somma zero: un gioco win-lose. Quanto guadagna uno dei due giocatori è pari a quanto perde il suo contraente: chi indovina il valore o il rendimento di un asset vince la stessa quantità che perde chi non lo ha indovinato. Essa produce rendite e non profitto economico. Libero mercato e industria finanziaria sono due attività umane diverse. Mentre nel libero mercato vince chi produce maggior valore economico, nell’industria finanziaria vince chi dispone di maggiori risorse.

I piccoli risparmiatore come Antonio ne escono stritolati se non lo capiscono e non accettano la necessità di diventare azionisti. Per difendere la posizione patrimoniale che hanno raggiunto sono obbligati a partecipare al gioco dell’industria finanziaria. Antonio subisce le conseguenze di non aver capito ciò.

 

DENARO E CENSO

Carl Popper ha scritto:

non potrebbe esserci niente di meglio che vivere una vita modesta, semplice e libera in una società egalitaria. Mi ci volle un po’ di tempo per riconoscere che questo non era nient’altro che un sogno meraviglioso; che la libertà è più importante dell’uguaglianza; che il tentativo di attuare l’uguaglianza è di pregiudizio alle libertà; e che se va perduta la libertà, tra non liberi non c’è nemmeno uguaglianza.

Il pensiero “mainstream” corrente sembra non dare credito a queste parole di Popper.  Sembra esservi piuttosto il consenso a visioni come questa, espressa dal compianto Luciano Gallino ( Una Civiltà in Crisi, Ed. Einaudi 2023. Pag. 196 ) : Le disuguaglianze, pur essendo un fattore strutturale di lungo periodo della grande crisi economica e finanziaria maturata nel corso dei decenni, sono giunte a determinare negli anni Duemila comportamenti collettivi che sono stati uno dei fattori scatenanti della crisi iniziata nel 2007.

Ciò che Gallino chiama un fattore strutturale di lungo periodo è la struttura sociale gerarchica a livelli caratterizzati dalle entità delle risorse possedute. Le persone non desiderano una società egalitaria, ma rivendicano il diritto a risorse ritenute necessarie per una vita libera e dignitosa ( v. art. 3 della Costituzione ). Pretendono di posizionarsi ad un livello di censo nel quale tale diritto sia rispettato. Non ritengono che basti, affinchè tale diritto sia rispettato, poter  disporre di risorse sufficienti a soddisfare le necessità primarie di cibo, vestiario, abitazione e igiene.  Rivendicano una collocazione nella scala gerarchica delle proprietà che rispetti la loro dignità di lavoratori e di cittadini. Provano risentimento se ritengono di trovarsi ad un livello censuale ad esso inferiore. Nelle nostre società, da secoli, individui e famiglie sono classificate (“censite”) nella scala gerarchica in base al loro “censo”. Il denaro, che è lo strumento che abbiamo per poter dare valori comparabili a risorse di tipo diverso, è l’unità di misura del censo.

Ma il denaro è anche lo strumento che permette agli esseri umani di condividere il valore delle cose. Esso rende possibile la prima forma di comunicazione fra esseri umani: lo scambio di mercato. Grazie al denaro posso dare un valore alla cosa che desidero acquistare e comunicarlo a chi me la possa vendere. Grazie al denaro posso comunicare ai miei potenziali datori di lavoro il valore che attribuisco alla mia opera per loro. il denaro è l’unità di misura di quell’ingrediente che sta alla base della collaborazione fra esseri umani: la fiducia. Infatti costituisce l’unità di misura del credito fra due soggetti economici.

Ciò sembra sia dimenticato da parte degli  avversari del capitalismo, nella loro foga di considerare il denaro lo sterco del diavolo. soprattutto perché la quantità di risorse posseduta, misurata in termini monetari, dà anche la misura del potere che si ha. Ci ricorda Einstein che esiste “il capitale privato il cui enorme potere non può essere controllato in modo efficace nemmeno da una società politica organizzata su basi democratiche. Questo accade perché i membri degli enti legislativi sono scelti dai partiti politici, largamente finanziati o altrimenti influenzati dai capitalisti privati, che , ad ogni fine pratico, separano l’elettorato dall’assemblea legislativa. La conseguenza è che , di fatto, i rappresentanti del popolo non proteggono a sufficienza gli interessi delle fasce diseredate della popolazione. Inoltre, nelle condizioni attuali, i capitalisti privati controllano inevitabilmente, in modo diretto o indiretto, le principali fonti di informazione (stampa, radio, pubblica istruzione). Per cui è estremamente difficile, e nella maggior parte dei casi del tutto impossibile, che il singolo cittadino possa arrivare a conclusioni oggettive e avvalersi in modo intelligente dei propri diritti politici (Einstein, Pensieri,Idee,Opinioni, 2010 Ed. Newton, pag. 113). Nell’assunto che l’ostilità al capitalismo faccia parte dell’opinione pubblica, sia i partiti che detengono il potere che quelli che aspirano a conquistarlo, la alimentano gareggiando nel promettere maggiore uguaglianza.

C’è una buona ragione per la quale Gallino menziona gli ultimi decenni: alla fine del XX secolo abbiamo assistito ad un vigoroso sviluppo dell’industria finanziaria. Ad esso ha dato origine il progresso della tecnologia digitale, o meglio della ICT ( Information Communication Technology )  rendendo globali e velocissimi gli scambi del mercato finanziario. Alla fine del primo quarto del ventunesimo secolo, nel mercato mondiale la quantità delle transazioni dell’industria finanziaria ha probabilmente pareggiato o forse superato quella delle transazioni relative a beni e servizi, cioè quelle che possiamo chiamare del libero mercato.

Prima del suo avvento come industria autonoma, la finanza era al servizio dell’economia del libero mercato. In esso si partecipa ad un gioco win-win. I giocatori, ovvero i contraenti dello scambio, ottengono dallo scambio un aumento delle proprie risorse. Il venditore ha trovato il modo di soddisfare un bisogno del compratore cedendogli un bene che gli è costato meno del prezzo che ne ricava. La differenza fra prezzo e costo è il profitto.

Non è lo stesso gioco quello dell’industria finanziaria. L’industria finanziaria è un gioco a somma zero: un gioco win-lose. Quanto guadagna uno dei due giocatori è pari a quanto perde il suo contraente: chi indovina il valore o il rendimento di un asset vince la stessa quantità che perde chi non lo ha indovinato. Essa produce rendite e non profitto economico. Libero mercato e industria finanziaria sono due attività umane diverse. Mentre nel libero mercato vince chi produce maggior valore economico, nell’industria finanziaria vince chi dispone di maggiori risorse.

Prima dell’avvento dell’industria finanziaria, la  struttura sociale a livelli gerarchici censuali derivava, a lungo andare, dal successo che gli  operatori conseguivano nel libero mercato dei beni e servizi. Cioè, in buona misura,  premiava i produttori di ricchezza economica collettiva. Oggi sempre più risorse si ottengono non da transazioni nel libero mercato ma da transazioni dell’industria finanziaria: da rendita del denaro posseduto, non dal profitto dell’opera effettuata. Poiché continua ad essere il denaro la misura del censo, ad essere premiati sono sempre più i possessori di attivi finanziari; con l’effetto prevalente di spostamento di ricchezza da un soggetto ad un altro, non di produzione di nuova ricchezza per la collettività.

La distinzione fra industria finanziaria e libero mercato è ignorata dai più e occultata da alcuni. Tale ignoranza

esalta e diffonde rivendicazioni e risentimento delle persone, che si traducono in ostilità contro il capitalismo, condanna pressocché universale del profitto, e diffidenza nei confronti della libera impresa, generalmente confusa con l’industria finanziaria. Con la progressiva affermazione dell’industria finanziaria, la struttura gerarchia sociale basata sulla quantità di ricchezza, espressa in denaro, che ciascun individuo possiede, viene percepita sempre più ingiusta dalle popolazioni. Infatti sempre più si arricchisce chi vince il gioco finanziario e sempre meno chi inventa e produce cose utili per il benessere per la collettività.

Viene così messo in discussione quello che è il fondamento delle nostre democrazie occidentali: l’accettazione da parte delle persone della gerarchia sociale basata sul livello censuale.

Ciò è fra le cause principali del declino dell’occidente e, al momento, non si vedono possibili rimedi all’orizzonte.

L’Homus Faber non è più il dominus della società. Lo sta diventando, o forse lo è ormai,  l’uomo che sa meglio inventare e usare gli algoritmi digitali e le reti neurali dell’Intelligenza Artificiale, e usa questi strumenti per arricchirsi. Mi sembra che la degna conclusione di questa piccola analisi sia il seguente interrogativo: sopravviverà al declino dell’Homus Faber la struttura gerarchica della società basata sul livello di ricchezza degli individui?