LE OTTO MONTAGNE: UN FILM DI SILENZI E DI ALLUSIONI, DI IMMOBILI PAESAGGI E DI IMPROVVISE IRRUZIONI DELL’ETERNO NEL TEMPO, recensione di Francesco Sirleto

“… NON RESTA CHE VAGARE PER LE OTTO MONTAGNE PER CHI, COME NOI, SULLA PRIMA E PIÙ ALTA, HA PERSO UN AMICO …”.
LE OTTO MONTAGNE: UN FILM DI SILENZI E DI ALLUSIONI, DI IMMOBILI PAESAGGI E DI IMPROVVISE IRRUZIONI DELL’ETERNO NEL TEMPO.
Quando, durante le vacanze natalizie del 2016, acquistai e lessi, tutto d’un fiato, il bel libro di Paolo Cognetti “Le otto montagne”, non avrei mai pensato che, da quella storia di amicizia e di formazione al rispetto e all’amore per la natura, una storia fatta di silenzi e di allusioni, di immobili e incantevoli paesaggi alpini e di inattese e improvvise irruzioni dell’eterno nel tempo, fosse possibile trarne un film, vale a dire una trama che potesse incatenare alla poltrona, e commuovere ed emozionare lo spettatore per la bellezza di quasi due ore e mezzo.
Eppure il film firmato dai due coniugi fiamminghi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, con la sceneggiatura dello stesso Paolo Cognetti, è riuscito a trasformare in splendide immagini di una natura al tempo stesso materna e minacciosa, un racconto che, con semplicità e senza ricorrere a colpi di scena e ad altri sapienti sotterfugi tecnici, narra l’amicizia tra due adolescenti (poi giovani e poi, ancora, uomini maturi), Pietro e Bruno, tra loro molto lontani per provenienza sociale e culturale, ma uniti dall’amore per la montagna, per i suoi incanti e i suoi pericoli, per i suoi boschi e i suoi pascoli, per la moltitudine di esseri viventi che popolano valli, crepacci, anfratti, cime spesso innevate, che si nascondono nel sottobosco o che tracciano, con i loro voli, traiettorie nei suoi cieli azzurri o gonfi di oscure nuvolaglie.
Il film (visto ieri sera al Cinema Caravaggio con gli amici del Cinecircolo romano), sebbene di lunghezza eccessiva ma forse necessaria a sottolineare la “dilatazione del tempo” che caratterizza i ritmi biologici e psicologici di chi trascorre la vita in montagna, è veramente bello, per lunghi tratti commovente e coinvolgente: l’amicizia tra Pietro il cittadino e Bruno il montanaro (interpretati, rispettivamente, dagli ottimi Luca Marinelli e Alessandro Borghi), ha aspetti quasi classici ed epici: l’incontro tra due mondi diversi ma che si completano e si integrano, in modo da dar vita ad un percorso educativo nel quale ciascuno è maestro e allievo al tempo stesso.
Ma, al di sopra e accanto ai due amici protagonisti, si nota la presenza affatto incombente, ma non per questo meno inquietante e/o rasserenante, di una Natura che, nonostante le offese che quotidianamente subisce dagli esseri umani, non smette di esercitare la sua funzione di origine, fondamento, e fonte di nutrimento (materiale e spirituale) per tutti gli enti viventi. Una presenza inesorabile e ineliminabile che, attraverso la vastità e la multiformità delle sue manifestazioni, e mediante la intermittente irruzione dell’eterno nella dimensione fragilmente temporale degli enti finiti, richiama gli umani (non tutti riescono, o hanno voglia di ascoltare questo richiamo, purtroppo) a mettere da parte ciò che separa e a soffermarsi su ciò che unisce.
Un film (e un libro, quello di Cognetti) che emoziona e, al tempo stesso, invita a provvidenziali squarci di riflessione sui rapporti tra gli uomini, e sui rapporti tra questi e la natura.