Hachiko – Il tuo migliore amico, recensione di Riccardo Rosati

Hachiko – Il tuo migliore amico

 

Genere: drammatico

Nazione: USA

Anno produzione: 2009

Durata: 93′

Regia: Lasse Hallström

Cast: Richard Gere, Sarah Roemer, Joan Allen, Jason Alexander, Cary-Hiroyuki Tagawa, Erick Avari, Donna Sorbello, Robert Capron, Davenia McFadden, Bates Wilder

Sceneggiatura: Stephen P. Lindsey. Rifacimento della pellicola Hachikō monogatari (1987) di Sejirō Kōyama

Produzione:  Inferno Productions

Distribuzione: Lucky Red

 

 Un cucciolo venuto da molto lontano

Commovente riadattamento americano di una autentica icona del Giappone moderno. Questa è la storia di Hachi, un cane di razza Akita, e della amicizia senza pari che lo lega al suo padrone. Ogni giorno Hachi accompagna il Professor Parker (Richard Gere) alla stazione e lo aspetta al suo ritorno per dargli il benvenuto. Stesso posto, stesso orario, per anni! Questa meravigliosa routine viene interrotta dalla morte improvvisa dell’uomo. Mentre tutti vanno avanti: la moglie e la figlia di Parker si rifanno una vita, Hachi continua ad attendere il padrone. Un piccolo pezzo incontaminato di Giappone arrivato in Occidente, a conferma che l’amore e il rispetto vanno dimostrati specialmente con in fatti.

Il valore della fedeltà

Hachi in giapponese vuol dire “otto” (“ko” è invece un vezzeggiativo): un numero fortunato sia in Cina che in Giappone e che sta a ricordare la circolarità della vita. Ma Hachi è anche il protagonista di una delle più belle storie di sempre che riguardi un cane, alla pari delle opere dello scrittore statunitense Jack London  (1876 – 1916), con una sola enorme differenza, quella di Hachi è una storia vera! Un esemplare maschio di Akita bianco, all’età di due mesi, venne adottato da Hidesaburō Ueno (1872 – 1925), docente di Agronomia presso la Università Imperiale di Tōkyō. Ogni mattina il Professor Ueno si dirigeva alla stazione di Shibuya, con il suo fedele cane che lo accompagnava e lo attendeva quando rientrava da una dura giornata lavorativa. Purtroppo il 21 maggio 1925, egli morì di arresto cardiaco mentre era alla università. Hachiko, ridotto ormai a randagio, continuò puntualmente a presentarsi alla stazione anche dopo la morte dell’uomo. L’8 marzo 1935 il povero animale morì (aveva circa dodici anni) dopo una attesa ininterrotta di ben dieci anni. Ecco, tutto questo è veramente molto giapponese, tanto che il Popolo del Sol Levante si è talmente riconosciuto nella struggente storia di Hachi, che a Shibuya è presente una statua in bronzo del cane, diventata ormai un punto di riferimento e di incontro per i giovani. Ma cosa ha questa storia di tanto speciale per diventare un caso nazionale? Semplice, essa incarna quel valore di fedeltà assoluta che i nipponici hanno sempre avuto nel DNA e che hanno poi sublimato durante l’Epoca Samuraica che si spense con la fine del Periodo Tokugawa (1603 – 1868). Altra domanda: perché fa ancora tanta presa su di noi? Probabilmente, poiché nel profondo della nostra coscienza ci rendiamo conto che la società in cui viviamo ha perso da troppo tempo i valori e questo ci manca, visto che ciascuno di noi, almeno quelli “sani”, sacrificherebbe volentieri una parte del proprio benessere, per un po’ di vita vera in più. In questo caso, si potrebbe forse riformulare il concetto con: ci piacerebbe essere meno americani e un tantino più giapponesi.

Tuttavia, all’America e al suo cinema (il regista però è svedese) va il plauso di aver riproposto questa vicenda in maniera deliziosa e accurata. Il film di Lasse Hallström fa venire i brividi dalla tenerezza. Certo, l’idea del cagnolino tutto amore per il padrone è una vecchia furberia cinematografica, ma cerchiamo per una volta di lasciare da parte il cinismo che impregna le nostre giornate. Difatti, quello di Hachiko (“Hachi. A Dog’s Tale”) è il semplice e sobrio racconto della meravigliosa normalità della quotidianità; contrapposta al vuoto incolmabile lasciato dalla morte di chi si ama. Eppure, rinnovare ogni giorno un gesto che ci lega ai nostri defunti può essere un modo per tenerli vicino a noi, mentre aspettiamo di “raggiungerli”.

 

Inutile negare come la pellicola tenda a creare autentici laghi di lacrime: trattasi di una opera fatta ad arte per stremare il pubblico dalla commozione. Ragion per cui, se vi ritenete un essere a base carbonio (per dirla con il linguaggio di Star Trek), beh piangerete!

Riccardo Rosati