QUELL’AMORE PATERNO CHE NON SI ARRENDE MAI.
“IL TEMPO CHE CI VUOLE”, un film di Francesca Comencini dedicato al padre Luigi: un omaggio affettuoso e colmo di gratitudine. Recensione di Francesco Sirleto
Visto ieri sera, nel cinema Caravaggio, insieme agli amici del Cinecircolo romano.
Un film bello e commovente, una professione di tenero amore filiale nei confronti di un grandissimo regista che ha trasmesso a Francesca Comencini una passione sconfinata per il cinema e, in anni bui e difficili, i cosiddetti “anni di piombo”, con la sua ostinata volontà di non arrendersi all’inevitabile e di non abbandonare la figlia neanche per un istante (“per tutto il tempo che ci vuole”, appunto), l’ha salvata dal baratro della tossicodipendenza.
La regista ripercorre – in questo film che molto assomiglia ad una “Recherche du temps perdu” ambientata in un periodo tormentato e tragico (ancora vivo nella memoria collettiva e dei singoli) – la sua infanzia e il suo rapporto quasi simbiotico con un padre, Luigi Comencini, la cui vita e la cui filmografia è caratterizzata dalla forte presenza dei bambini e dai relativi temi della loro crescita educativa alle prese con un mondo molto spesso ostile e irto di pericoli. La prima parte del film, a nostro avviso la più pregevole, è infatti ambientata, simbolicamente, sul set e durante le riprese del capolavoro di Luigi Comencini, quel “Pinocchio” che, nonostante i valorosi tentativi di superarlo, operati in tempi recenti da ottimi cineasti quali Roberto Benigni e Matteo Garrone (con lo stesso Benigni nella parte di Geppetto), rimane un modello inimitabile e inarrivabile.
È proprio in questa prima parte, e nei teneri ricordi di una bambina affascinata dalla forte personalità paterna e da un cinema che si offre come formidabile strumento pedagogico, che il film raggiunge un equilibrio e una perfetta sintesi di recitazione, ambientazione, fotografia e commento musicale e, ovviamente, qualità e sapienza registica. Segue poi la parte drammatica della storia, la discesa nel baratro della droga, causa del conflitto latente tra padre e figlia, un conflitto che raggiunge la sua acme nel momento in cui il padre decide, contro la volontà della figlia, di portarla con sé a Parigi e di non perderla mai di vista, dedicando tutte le sue energie e il suo tempo, alla salvezza psicofisica di una ragazza che, pur amandolo, vuole a tutti i costi sottrarsi alla sua ingombrante presenza. L’ultima parte del film, quella ambientata negli ultimi anni di Luigi Comencini (morto nel 2016), coincide con un commosso omaggio all’opera cinematografica di Comencini, ai suoi esordi come sceneggiatore di Rossellini e alla sua opera di raccoglitore di pellicole e documenti dei primordi della storia del cinema.
Un film nel complesso bello e godibile, drammatico e coinvolgente, nel quale rifulgono le grandi e sperimentate doti interpretative di Fabrizio Gifuni (strepitoso nel ruolo del padre Luigi) ma anche la freschezza e la piena aderenza alla parte di Romana Maggiora Vergano, perfetta nel ruolo di Francesca. Una menzione particolare la merita anche la piccola Anna Mangiocavallo, magnifica nel ruolo di Francesca bambina.