Il Pinocchio di Garrone (di Ludovico Fulci)

Il Pinocchio di Garrone

di Ludovico Fulci

Discutibile per tanti aspetti, a cominciare da quello di un eccessivo carico di effetti speciali, ai quali peraltro dobbiamo abituarci, anche perché irrinunciabili da parte dei registi che mirino ad almeno una nomination per l’Oscar, il Pinocchio di Nicola Garrone è un ottimo film. Se si eccettua  un’atmosfera che qua e là sa di Alice nel paese delle meraviglie, l’operazione di traduzione dell’opera di Collodi, compiuta da Garrone è filologicamente assai corretta. E questo è, a mio avviso, il pregio che riscatta il film facendone un’opera rigorosa e, sotto certi aspetti esemplare.

Pinocchio, voglio dire, non è altro se non l’opera d’arte che, felicemente uscita di mano al suo autore, ha libera circolazione e, correndo sulle sue gambe, ha vita autonoma. Nel caso di Pinocchio di Collodi l’autonomia del personaggio rispetto all’autore è un fatto che è già nella storia del libro. In origine l’assassinio perpetrato ai danni di Pinocchio al campo dei miracoli c’era davvero e lì era finita la storia con una sepoltura comune del burattino e della sorella, la bambina che vediamo fino a un certo punto del film. Correttamente, volendo ricollegare il primo Pinocchio al secondo, Garrone omette il particolare della sepoltura, ma fa affacciare alla finestra della casa la bambina che annuncia la morte che sta per arrivare. E qui finiva la storia. Accadde poi che, essendo Collodi un giocatore incallito o quasi e, come tale inseguito dai non pochi creditori, gli venne l’idea di far tornare in vita Pinocchio e di continuarne la storia, che pubblicata a puntate, gli garantiva un po’ di soldi. Lo scrittore sentì di potersi fidare della creatura nata dalla sua fantasia e Pinocchio che rivive, rivive così bene da promettere che un giorno camminerà con le sue gambe e diventerà un bambino vero, Pinocchio, protagonista del libro che tutti abbiamo letto e che non è certo noioso come l’abbecedario. Soddisfazione morale maggiore non può venire a un artista da quel che è frutto della sua fantasia.

È stato così in tutti i tempi. Quando Michelangelo fu costretto a spostare il Mosè in uno spazio più ridotto, fece in modo che la sua scultura continuasse a vivere, scendendo per l’occasione a tu per tu in un dialogo silenzioso ma che dobbiamo immaginare assai fitto, con quella sua opera. La torse in parte su se stessa e, trovata davvero geniale, ne accorciò una gamba a fini prospettici e contro ogni fedeltà anatomica. D’altronde chi vuol vivere ha da soffrire. E il Mosè è ancora dove Michelangelo fu costretto a traslarlo.

L’aneddoto serve a spiegare le ottime ragioni che nasconde la lettura che Garrone ha fatto di Pinocchio, lettura attenta e scrupolosa, che anche nel finale, in cui Pinocchio diventa bambino, è autenticamente gioiosa.