Camera con vista: i migliori film del 2019 secondo Catello Masullo – seconda parte

Locandine dei migliori film del 2019, selezionati da Catello Masullo.

Joker, di Todd Phillips

L’originalità nelle espressioni artistiche è merce sempre più rara, specie al cinema. Quando c’è, bisogna esultare. Il mitico Joker, cattivissimo nemico per antonomasia di Batman, lo avevamo visto più volte. Con interpretazioni leggendarie, di Jack Nicholson e di Heath Ledger (ma anche di Jared Leto, Cesar Romero, Roger Stoneburner, Cameron Monaghan). Ma nessuno prima di oggi si era cimentato a raccontarne la storia pregressa: da dove viene fuori Joker e, soprattutto, la sua lisergica cattiveria.

Lo ha fatto Todd Phillips, come forse meglio non si poteva: scrivendo e modellando la sceneggiatura su uno dei più grandi e versatili attori viventi, Joaquin Phoenix, alla sua migliore interpretazione di sempre (sicuramente in odore di Coppa Volpi a Venezia, ma certamente anche di nomination agli Oscar). Con il linguaggio del corpo, con una mimica incredibile, Phoenix e il film trascinano lo spettatore nell’allucinazione progressiva del personaggio, incollandolo alla poltrona. Spettacolo assicurato.

 

Downton Abbey, di Michael Engler

La cinematografia inglese è la migliore del mondo, perché può contare sui migliori attori del mondo, tutti di solida esperienza teatrale, e perché ha le migliori maestranze e i migliori artisti del mondo. Questo film dimostra ancora una volta questa supremazia. Una perfezione da capolavoro assoluto dove niente è fuori posto. Dove non ci sono sbavature e le ricostruzioni storiche sono minuziose e filologiche. I protocolli di corte sono ricostruiti alla lettera. I tempi e il ritmo sono sempre ai massimi livelli, le entrate millimetriche, i dialoghi affilati come rasoi, di ironia sublime; gli attori, insuperabili. In definitiva, Downton Abbey, il film che porta sul grande schermo la celeberrima serie tv sulle vicende dell’aristocratica famiglia Crowley, è un film perfetto.

 

Un giorno di pioggia a New York, di Woody Allen

Woody Allen, quando era un ragazzino squattrinato, vide in una vetrina una macchina da scrivere europea d’occasione. Chiese al venditore se fosse abbastanza robusta. “Questa macchina da scrivere camperà più di te!”, si sentì ribattere. Fu un venditore profetico. Allen ancora oggi scrive i suoi film su quella macchina. E non solo: ci scrive anche le idee che gli vengono per eventuali film futuri. Anche solo due righe, che taglia con le forbici e mette in un cassetto. Poi, quando vuole cominciare a scrivere un film nuovo, prende tutti i ritagli dal cassetto, li sparge sul letto e comincia a compulsarli. Sarei curioso di sapere quando ha scritto il ritaglio per Un giorno di pioggia a New York.

Da Woody Allen ti aspetti sempre un mini-capolavoro, un gioiellino. E non ti delude mai. Ogni anno, con un’incredibile continuità e un’inesauribile vena artistica, ne sforna uno. Non c’è altro filmaker che possa vantare qualcosa di nemmeno lontanamente simile. Il cineasta di Brooklyn, 84 anni suonati, 80 film da sceneggiatore, 55 da regista, 48 da attore, 4 Oscar, 136 premi e 213 nominations, non sbaglia mai un film. Anche quando da qualche che parte si accenna al passo falso (lo si è fatto in Italia per To Rome with Love), si tratta sempre di un Woody Allen touch, una garanzia di elevata qualità cinematografica.

Non fa eccezione questa sua ultima, deliziosa, fatica. Ha il marchio di fabbrica. Come spesso accade ai grandi, con l’avanzare dell’età guadagna in semplicità e linearità, andando incontro al pubblico. All’uscita dall’anteprima stampa ne discutevo con il grande sceneggiatore Roberto Leoni, al quale l’happy end era sembrato di maniera e non troppo giustificato. Come ho detto all’amico Roberto, a caldo, non sono d’accordo: ha semplicemente mantenuto una promessa che aveva fatto allo spettatore durante il film. Punto.

Per il resto non perde nulla della sua impareggiabile ironia. Del suo sofisticato costruire dialoghi di una grande freschezza ed efficacia. Quando Timothée Chalamet si mette a cantare al pianoforte Everything Happens to Me di Chet Baker è un’apoteosi. La magia delle luci di Vittorio Storaro è inarrivabile. Che volete di più da un film?

 

The Irishman, di Martin Scorsese

Qualcuno dice, e sicuramente ripeterà per l’occasione, che Martin Scorsese fa sempre lo stesso film. Lo si diceva anche di Fellini. E invece l’indiscusso maestro del gangster movie ci stupisce ancora, dal momento che è sempre un passo avanti a tutti, nonostante i 76 anni e un cinema che più classico non si può. Prima di tutto dal punto di vista produttivo: gli Studios di Hollywood non gli avrebbero mai dato gli oltre 170 milioni di dollari che servivano a Scorsese per costruire questo film epico. Li ha però ottenuti dal gigante Netflix. Che gli ha concesso tutto: l’assoluta libertà creativa, tutti i soldi e il tempo per girare (riprese del film iniziate nell’agosto 2017 a New York, terminate il 5 marzo 2018, oltre sette mesi, tempi oramai impensabili nelle produzioni correnti, anche le maggiori), tutto il tempo che voleva per la post produzione (oltre sei mesi), quattro settimane in sala prima della messa in onda sui canali Netflix in 190 Paesi al mondo, mentre in genere per le produzioni Netflix l’uscita in sala è contemporanea alla messa in onda.

Come ha detto Scorsese nella presentazione del film a Roma: un film, per poterlo vedere, prima lo si deve fare. Ma le novità non si fermano qui. Scorsese voleva fare il film con i suoi attori preferiti, che sono suoi coetanei o quasi. Dovendo coprire un arco temporale di svariati decenni, avrebbe dovuto usare attori giovani per le fasi più datate. Invece usa un procedimento sperimentale di ringiovanimento digitale dei suoi attori per farli apparire molto più giovani. Un procedimento la cui sperimentazione era stata avviata dallo stesso Scorsese quattro anni fa, chiamando De Niro a girare nuovamente delle scene di 29 anni fa, in Quei Bravi Ragazzi.

Anche in questo il film è modernissimo e all’assoluta avanguardia della tecnica cinematografica. L’idea originaria del film è di Bob De Niro, che ha dato da leggere a Scorsese il libro L’irlandese. Ho ucciso Jimmy Hoffa di Charles Brandt (ed. Fazi). Ha poi indicato Al Pacino per il ruolo sulfureo di Jimmy Hoffa. Il film era il più atteso dell’anno, e non deluderà le aspettative dei fan. Sontuoso, quasi 300 scene girate, un lavoro di montaggio e post produzione immenso, che non si vedeva da decenni. Ricostruzioni storiche strepitose, attori insuperabili, spettatore inchiodato alla poltrona per tre ore e mezza, cosa rarissima. Eppure appena una punta di delusione forse la si può trovare.

Forse anche perché quando le aspettative sono così alte ti aspetti il capolavoro assoluto ed insuperabile. Il film ha come tema centrale il trascorrere del tempo e l’inarrestabile avvicinamento alla fine naturale di tutte le vite umane. La memoria va al capolavoro di Sergio Leone C’era una volta in America; anche perché il protagonista è lo stesso, il monumentale De Niro. Anche se Scorsese ha negato di esserne stato ispirato, quel film ce lo aveva dentro. E, con ogni probabilità, l’immensa interpretazione di De Niro un qualche tributo lo deve a quella che aveva fatto nel film di Leone 35 anni fa. Quindi il paragone a distanza si impone, e Leone batte Scorsese uno a zero per la poesia.

 

La belle époque, di Nicolas Bedos

Un film originale e geniale, che si prende anche un po’ gioco delle ricostruzioni calligrafiche in costume nelle quali il cinema anglosassone è imbattibile specialista. Ed è perfino autoironico quando l’alter ego del regista, interpretato da Guillaume Canet, che fa il regista della vita degli altri, lo fa anche per la sua stessa vita. Costruzione fascinosa e fantasiosa, grande ritmo, una colonna sonora memorabile ed emozionante, uno stuolo di attori immensi. In definitiva La belle époque è un film splendido.

 

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