Fellini ci ha regalato una bellezza nuova. Una bellezza diversa

Una caricatura di Federico Fellini.

Cent’anni fa nasceva Federico Fellini. Nasceva a Rimini in un anno stretto tra due guerre e un regime, sulla soglia sempre più sottile del Ventennio; un anno obliquo, il 1920, sul quale nazioni intere scivolarono verso il fondo della Storia, Italia compresa. Su questo scenario si innesta la formazione del regista per antonomasia, iconizzato nella sua caricatura tutta profilo cappello e sciarpa rossa, visionario autore di fotogrammi immortali: Anita Ekberg che “Marcello, come here”, si bagna nella fontana di Trevi; Claudia Cardinale mentre sentenzia sorridente che il suo regista “non sa voler bene”; Giulietta Masina sola e tradita che cammina tra gli alberi, con la comitiva di giovani festanti che lenisce la sua disperazione.

Prima vignettista, poi sceneggiatore, con in mezzo gli studi di Giurisprudenza senza mai dare neppure un esame, Fellini collaborò con una grande quantità di autori nel crogiolo romano degli anni Quaranta. Fino al 1945, l’anno in cui conobbe Roberto Rossellini e cominciò il confronto con la maggiore corrente cinematografica dell’epoca: il neorealismo.

Perché parlare di Fellini significa parlare di epoche, concluse e cominciate. A cent’anni dalla nascita del regista e a ventisette dalla sua scomparsa la discussione sulla sua opera ha raggiunto un’estenuata maturità. Quindi, basta amarcord. Per celebrare l’artista, oltre alle pellicole più note, si possono valutare quelle meno conosciute, e poi riflettere sulla sua eredità; che in questo caso corrisponde al suo influsso sul cinema contemporaneo.

 

Il cortometraggio di Fellini, una critica scanzonata al neorealismo

Fellini ha girato un cortometraggio. L’occasione è stata la richiesta che gli fece Cesare Zavattini di collaborare a un film a episodi, L’amore in città. Così nacque Agenzia matrimoniale, corto del 1953 incuneato tra I vitelloni e La strada. L’impronta avrebbe dovuto essere neorealista, ma Fellini andò volutamente fuori tema con la storia di un licantropo che cerca moglie – quanto di più lontano potesse esserci dal criterio di adesione alla realtà.

Antonio Cifariello, divo di quegli anni – altra contravvenzione rispetto allo stile neorealista –, interpreta un giornalista incaricato di scrivere un reportage sulle agenzie matrimoniali di Roma. Ne contatta una per osservarne il funzionamento, e lì, sul momento, inventa la storia di un suo amico, ricco proprietario terriero ma afflitto da una grave licantropia, che cerca nel matrimonio l’ultima cura possibile al suo male. Con sua sorpresa, la cinica impiegata dell’agenzia commenta: lo sistemiamo, e gli combina un appuntamento con una ragazza di semplice e goffa dolcezza, in fuga dalla miseria del suo paese alla ricerca di un marito che la mantenga.

Ma questo signore è buono?, gli chiede la giovane quando apprende della terribile malattia. Incurante della vita di sacrificio che la aspetterebbe, già impervia a ogni tipo di sofferenza, si dice disposta ad affezionarsi perfino a un uomo simile. Il giornalista chiude il discorso, in preda al senso di colpa per aver confezionato una menzogna che credeva avrebbe respinto chiunque, ma che per qualcuno si è rivelata comunque una speranza. Il corto finisce così, senza indagare oltre la profondità dell’afflizione umana. La ragazza viene lasciata sola.

In questo breve spazio, in cui la realtà cerca di superare la fiaba attraverso la banalità della disperazione, il regista chiude le porte all’assunto neorealista che gli veniva ripetuto da più voci: “Hai visto, caro Fellini, che la realtà è sempre più fantastica della più sfrenata fantasia?”. No, grazie: l’iper-reale della miseria non riesce a penetrare i velami dell’invenzione sovrannaturale, i fili narrativi sono recisi prima dell’intreccio, e il film che sarebbe stato abortisce. È un corto, sì, ma perché viene tagliato sul nascere, non perché svolga una trama seguendo un criterio di brevità. Con buona pace dell’occhio neorealista che indaga le cose nel loro scabro squallore, fin dentro le vergogne, e anzi le va a cercare col lanternino meccanico della macchina da presa.

In un’intervista successiva, Fellini dichiarò che nel suo corto si era preso “una rivincita alle spalle di chi faceva in quegli anni comiziesche dichiarazioni sul neorealismo, creando le nefande conseguenze che ancora perdurano”.

 

La bellezza diversa di Federico Fellini

Fellini lottò a lungo per guadagnare uno spazio per la sua visione, presso la critica e presso il pubblico – due binari che viaggiano spesso a velocità diverse, per diverse ragioni. Riuscì ad affermarsi solo dopo un certo numero di anni e di fallimenti, con grande dispendio in termini economici e personali. Fu un corpo a corpo intenso quanto quello stilistico, tramite il quale ottenne una grammatica cinematografica propria; una cifra espressiva inconfondibile che fino a quel momento non era esistita, in una settima arte ancora così giovane soprattutto nella ricezione.

I risultati sono stati dirompenti. Il successo dei film di Fellini ha attraversato i mari e gli oceani per le caratteristiche che tutt’oggi lo rappresentano: il fantarealismo onirico che nutre la razionalità e l’immaginazione, la dissoluzione della quarta dimensione in episodi o nuclei narrativi, il simbolismo rigoroso ma accessibile. Stilemi che gli permisero di lavorare a cuore aperto con la materia ribollente del ricordo, parente stretta del sogno e dell’invenzione: perché la memoria è costruttiva, e ogni prospettiva comprime alcuni dettagli e ne dilata altri, negli occhi come nella cinepresa. Per questo motivo secondo Fellini l’oggettività è impossibile e “il visionario è l’unico realista”.

Una maturità espressiva che ha richiesto più di vent’anni per esprimersi, e ancora di più per essere capita appieno, ma che ha avuto come risultato la definizione di un nuovo tipo di bellezza. Una bellezza diversa perché, tra le altre cose, si apriva ad accogliere il diverso e il difforme, elevandolo fino a farne creatura di sogno, come quelle impersonate dai grandi volti del cinema. Federico Fellini ha fatto epoca da sé. Un’opera titanica, specie per un solo artista. Ma la bellezza, se riconosciuta in modo così ampio, nel mondo dell’arte ha conseguenze magnifiche e devastanti: tra tutte, lo stabilimento di un canone.

 

Il convitato di pietra della Notte degli Oscar

Fellini fu candidato all’Oscar in dodici occasioni. Per quattro volte vinse la statuetta per il miglior film straniero, la caditoia nella quale l’Academy responsabile dell’assegnazione riunisce tutta la produzione filmica mondiale non americana. Al di là dell’Atlantico la sua figura è venerata come quella di un profeta del cinema, un maestro inarrivabile di un’epoca che non tornerà più, a tutti gli effetti entrato a far parte dei mostri sacri dell’arte italiana. E questo – le aspettative di un certo pubblico – ha condizionato buona parte del cinema nostrano degli ultimi trent’anni.

Per capirlo basta osservare le assegnazioni degli ultimi premi Oscar italiani al miglior film straniero, categoria che ha consacrato il trionfo del cineasta riminese. Entrambi spiccano solitari in un evidente periodo di stanca del cinema nazionale: si tratta de La vita è bella (1999) e La grande bellezza (2014), separati da quindici anni di silenzio – gli stessi intercorsi tra l’assegnazione dell’ultimo premio a Federico Fellini, nel 1975, e la successiva premiazione di un film italiano alla Notte degli Oscar (Nuovo Cinema Paradiso, nel 1990).

Entrambe le pellicole hanno in comune un debito, maggiore o minore, nei confronti del maestro. Entrambe ne attraversano l’universo in maniera consapevole e controllata per recuperarne immagini e caratteristiche, per richiamare l’attenzione di un pubblico viziato e impigrito, vezzeggiandolo con il riconoscimento dello stile felliniano; quello che gli stranieri conoscono e si aspettano dal cinema italiano. Come se, in fondo, non ci fosse granché d’altro da dire, in Italia, quando si vogliono produrre film belli e di successo.

Le “nefande conseguenze che ancora perdurano” del bello felliniano sono queste. Di Fellini siamo ancora orfani, ventisette anni dopo. Per piacere oltreconfine siamo costretti a spremere la sua eredità, parlando nel linguaggio che ha insegnato al mondo in quarant’anni. Non c’è ancora nessuno disposto a rompere con lui come lui ha rotto con il neorealismo, sebbene la sua sia un’influenza e non una dittatura stilistica. Ma un cinema debole non è in grado di superare neanche ostacoli tenui come questo.

Fellini ci ha regalato una bellezza nuova, ma non l’antidoto per liberarcene. Noi, invece, non siamo mai riusciti a superarla del tutto, in parte per nostalgia, in parte soverchiati dal rumore di un pubblico che acclama in lingua straniera.

 

 

Articolo di Andrea Iacopo Valente