Il cinema d’arte e la montagna , di Armando Lostaglio

               Il cinema d’arte e la montagna

 

di Armando Lostaglio

 

Un antico detto cinese recita: “Viaggiare è costruire. La migliore costruzione è quella che ci fa capire dove finisce la natura e comincia l’arte”.

Certo, entrare in un museo o in un cinema è come viaggiare, con la mente che elabora immagini. Il cinema d’arte, nei suoi viaggi memorabili, ha spesso incontrato la montagna, si è imbattuta nelle sue asperità e nelle sue bellezze, ne ha esaltato le difficoltà dell’uomo di superarla. Ma ne ha anche fatto momento di confronto, di esaltazione del sacrificio e, beneficamente, apologia della natura, sublimazione dello sguardo.                                                                                          Sono molte le pellicole (non solo documentari) che hanno fatto scalare virtualmente la montagna, odorandone ogni profumo, respirando quell’atmosfera fiabesca, che talvolta nasconde insidie. La letteratura ne ha fatto un genere. E proprio partendo dal connubio fra cinema e letteratura, va richiamato alla memoria il bellissimo documentario (presentato nel 1999 alla Mostra di Venezia) Ritratti: Mario Rigoni Stern, che il regista veneto Carlo Mazzacurati gira con Marco Paolini. Un film-dialogo nel quale lo scrittore di Asiago racconta la esperienza che lo hanno segnato: la guerra, il lager e il difficile ritorno a casa. La sua esperienza letteraria è un atto d’amore verso la montagna e la natura. Il film, di una sensibilità rara, racconta delle tre giornate d’inverno che Mario Rigoni Stern trascorre insieme a Paolini. Dapprima in un vecchio ricovero di boscaioli sulla Piana di Marcesina, un’occasione per lo scrittore per raccontare la sua vita. La seconda giornata è dedicata al tempo del ritorno e all’altopiano di Asiago. Nella terza giornata lo scrittore riflette sul presente, parlando di natura, memoria e di responsabilità. La letteratura che incontra il cinema, ovvero il cinema che si fa fonte di scoperta, esplorazione, ricerca di linguaggio.                                    Una analisi in tal senso la propone l’ispirato libro dell’autore lucano Gaetano Fierro “Il futuro si chiama montagna” (EditricErmes, Potenza) nel quale l’autore, appassionato e critico, propone le opportunità (in chiave di progresso civile) che la montagna potrebbe consolidare, a partire da una rinnovata idealità di turismo, e risalendo alle esperienze dei viaggiatori europei del Sette-Ottocento che toccarono il Sud, alla ricerca delle radici classiche e di una natura inviolata. Montagna come viaggio, ma anche espiazione e confronto.

Nel controverso e parossistico film di Alejandro Jodorowsky “La Montagna Sacra” (del 1973) un ladro, dopo essere passato attraverso esperienze mistiche, si reca da un alchimista che lo introduce alla vita ascetica. Insieme andranno in cerca della Montagna Sacra dove si trovano dei saggi: il fine è eliminare i vecchi sapienti e conquistare l’immortalità. Visionarietà, ma anche sublimazione della montagna, in una proiezione surreale ed onirica.

Charlie Chaplin nel 1925 con “La febbre dell’oro” rivisita l’epica dei cercatori d’oro, fra i ghiacci dell’Alaska. Un classico degli inizi del più grande fra i registi-poeti della celluloide.

Sempre sulle imprese montane ad alta quota, sulle sfide che la montagna sa lanciare, è uno dei film fondamentali di Clint Eastwood “Assassinio sull’Eiger” datato 1975. Il maestro ha appena compiuto 90 anni.

“Senza contatto, scambio di valori e accoglienza, non può esserci sviluppo umano e qualità dell’esistere”: è questa l’essenza di un buon film italiano di qualche anno fa “Il vento fa il suo giro” (“E l’aura fai son vir” in lingua occitana), diretto da Giorgio Diritti; è basato su una storia realmente accaduta ad Ostana, un borgo a 1300 metri nella valle del Po Cuneese, ed osservata dallo sceneggiatore Fredo Valla. Il titolo riprende un proverbio occitano: “tutto ritorna”. Si tratta di integrazione e condivisione in quelle popolazioni apparentemente chiuse.

Infine, occorre citare due opere dell’imponente cineasta tedesco Werner Herzog: “Grido di pietra” (del1991) nel quale racconta di una sfida tra alpinisti alla scalata del Cerro Torre, un picco situato in Patagonia, nelle Ande tra Argentina e Cile. Indimenticato protagonista è Vittorio Mezzogiorno insieme a Donald Sutherland. “Si ha l’impressione di planare sopra ogni cosa, di aver perso ogni contatto con la terra, di essere staccati dal mondo e dall’umanità. Mi sembra di trovarmi su una minuscola isola in mezzo ad un oceano sconfinato”. E’ l’epigrafe del film di Herzog, nel quale l’alpinismo vuol dire “riattingere al seno della terra, confluire nel respiro del mondo, salire tra la gravità e il cielo. L’esame smisurato con le creste e i precipizi del destino”.

In “Fitzcarraldo”, premiato a Cannes nel 1985 per la migliore regia, Herzog accompagna – tra ‘800 e ‘900 – ad un personaggio esaltato ed passionale al tempo stesso, Fitzcarraldo. Coinvolto totalmente dalla musica operistica, sogna di costruire il più grande teatro lirico del mondo in mezzo alla giungla amazzonica. E’ li che vuole far cantare addirittura Enrico Caruso, la folle idea che persegue con ostinazione e tormento. Protagonista è un immenso Klaus Kinski, per anni l’attore-icona di Herzog, affiancato da una straordinaria Claudia Cardinale. Il delirio di Fitzcarraldo si materializza in una nave di più di 300 tonnellate che verrà trascinata attraverso una montagna, mossa solo dalla forza degli indigeni, e dalla voce veemente di Caruso. Herzog non ha usato effetti speciali per girare queste scene, “sembrava essere spinta da una testardaggine proprio come quella del protagonista del suo film”.

In fondo, come ha scritto lo storico-economista elvetico Jean Francois Bergier: “le montagne, i laghi, le foreste…sono sempre stati abbastanza permeabili: non hanno impedito la circolazione di beni e di uomini”. E di questo il cinema ne ha dato ampiamente conto.