IL COLIBRÌ un film di Francesca Archibugi, recensione di di Stefano Valente

IL COLIBRÌ un film di Francesca Archibugi

 

di Stefano Valente

 

Il colibrì è un film del 2022 diretto da Francesca Archibugi e tratto dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi. Il film racconta la vita di Marco Carrera, detto “il colibrì”, un’esistenza fatta di amori assoluti, perdite e coincidenze. Cominciamo dalla fine: il film si conclude sull’ultimo atto della vita del protagonista che malato di un tumore al pancreas sceglie la via dell’eutanasia. Egli sceglie la dolce morte o il suicidio assistito alla presenza di tutti i suoi cari a meno della figlia morta anni prima in un incidente in montagna. La sua scelta in verità non è dettata dalla paura della morte bensì dalla paura della vita che come nevrotico lo ha sempre caratterizzato. La sua esistenza è gravata dal peso di un profondo senso di colpa: la sera in cui avrebbe amato la sua prima ragazza sua sorella si suicida e così l’amore per la sua ragazza viene segnato da questa coincidenza al punto che il protagonista non riuscirà mai a fare l’amore con lei. Da allora ogni volta che la vita nella sua radicale contingenza lo viene a visitare egli non riuscirà mai ad aprirsi ad essa ed alla sua radicale novità. Il suo soprannome infatti allude al fatto che egli consuma tantissime energie ma per restare lì dov’è, lì dove la vita non si decide ad aprirsi alla vita in tutto il suo nonsenso. Ed effettivamente alle sollecitazioni insensate e casuali della vita, che non sono governabili, Marco Carrera tenterà di rispondere cercando di trasformare la casualità in destino (esemplare è l’episodio dell’innamoramento per la hostess che diventerà sua moglie). Ma i suoi tentativi andranno incontro a tutta una lunga serie di fallimenti (il suo matrimonio fallisce come naufraga la sua relazione-non-relazione con il suo primo amore eccetera) che però non riusciranno a scalfire il suo atteggiamento di fondo nei confronti della vita. Il film può essere letto come la storia degli attentati che la vita nel suo nonsenso ha messo in atto per smuovere senza successo dalla sua posizione il protagonista. Marco per avere una buona coscienza vuole trasformare il contingente in necessario, il nonsenso in senso, il caso in destino (vedesi l’episodio della casa da gioco quando rinuncia ad una esorbitante quanto fortunata vincita – tale rinuncia è un modo per abolire l’azzardo che caratterizza ogni vita), una serie di incontri fortuiti in una storia. Ma la vita viene sempre a rompere le uova nel paniere. In verità il protagonista è stato per tutta la sua esistenza diffidente nei confronti della vita – possiamo parlare di un blocco che si struttura: per tutta la vita non riuscirà a liberarsi da un profondo senso di colpa che gli fa percepire la vita stessa come bisognosa di essere redenta dalla sua incalcolabilità. Anche la scelta di darsi la morte è un tentativo estremo di dare senso all’insensatezza estrema che è quella della morte. Qui l’autore del film è in malafede perché fa passare la scelta dell’eutanasia come un modo di dire di sì alla vita anche nei suoi aspetti più inaccettabili mentre è evidentissimo che l’atto del protagonista nel film è dettato dall’ennesimo tentativo di controllare la vita che gli vive intorno, l’ultimo tentativo, quello di controllare (almeno) la sua morte.