AIR – LA STORIA DEL GRANDE SALTO, recensione di Francesco Sirleto

AUTOCELEBRAZIONE E AUTOASSOLUZIONE DI UNA POTENTE MULTINAZIONALE:

“AIR – LA STORIA DEL GRANDE SALTO”.
recensione di Francesco Sirleto
Film con Matt Damon, Ben Affleck, Viola Davis, Jason Bateman, Marlon Wayans, Chris Messina, Chris Tucker.
Regia di Ben Affleck.
Come tutti i film americani che possono contare su un sostanzioso Budget, su un regista molto stimato e pluripremiato come Ben Affleck (che si è ritagliato, nella storia, un ruolo di importante comprimario), su un grande e collaudato interprete come Matt Damon nella veste di protagonista, affiancato da un’eccezionale attrice come Viola Davis nel ruolo di madre del più grande giocatore di basket di tutti i tempi (Michael Jordan), e, ovviamente, avendo a disposizione una perfetta organizzazione produttiva che non lascia niente al caso o all’improvvisazione, il prodotto finale di “Air – la storia del grande salto” (2023) non poteva essere certamente diverso da ciò che è stato: cioè un film di ottimo livello, divertente e accattivante.
L’ho visto, per la prima volta, ieri sera, mercoledì 20 dicembre, nel cinema Caravaggio, con gli amici del Cinecircolo romano, e devo ammettere che tutto ciò che la maggioranza della critica ha scritto di positivo al riguardo corrisponde a verità.
La storia dell’accordo, stipulato nel 1984, tra la multinazionale Nike (abbigliamento e calzature per lo sport) e l’ancora giovanissimo campione di basket Michael Jordan, infatti, è ben congegnata (non si poteva fare diversamente, essendo tutti i protagonisti dell’affare ancora in vita), ben diretta, ottimamente recitata da attori di gran classe (Damon, Affleck e, soprattutto, Viola Davis), ed è soprattutto rappresentata come una vera e propria gara sportiva: una competizione tra tre potenti multinazionali come Adidas, Converse e Nike (quest’ultima, in partenza, in posizione di svantaggio rispetto alle prime due) che si disputano l’ingaggio, quale testimonial, di un campione come Jordan che dovrà pubblicizzare la linea di scarpe di basket di una, e una sola, delle tre grandi società rivali.
E poi c’è la presenza di un “eroe” come Damon (nel ruolo dell’autentico protagonista Sonny Vaccaro) che, per conto della Nike, facendo leva sulle proprie capacità retorico-comunicative e vincendo lo scetticismo dei dirigenti della multinazionale dalla quale dipende, riesce a superare tutte le difficoltà e ad ottenere il grande risultato sul quale nessuno avrebbe scommesso neanche un dollaro.
Ma, al fine di raggiungere l’obiettivo, l’eroe deve accettare (e fare accettare ai propri dirigenti) una condizione a quel tempo del tutto improponibile: la concessione di una percentuale sulle vendite delle scarpe al testimonial Michael Jordan. Una condizione dettata dalla geniale madre del campione di basket, cioè Deloris Jordan. Quell’accordo, nell’ambito dello sport e del mondo dei giganteschi affari che ruotano intorno allo sport, fece epoca: dopo quel precedente furono infiniti gli analoghi accordi che le grandi multinazionali dovettero sottoscrivere con i grandi campioni di tutte le discipline sportive, dal basket al calcio, dal ciclismo allo sci, dal rugby all’atletica e al nuoto, ecc.
Fu un accordo che si può definire “rivoluzionario”, se lo limitiamo all’ambito sportivo e che, però, non intaccò affatto la logica capitalistica e finanziaria (una logica che ha come obiettivo la ricerca del massimo profitto attraverso una gestione “scientifica” degli investimenti, dei costi di produzione e della commercializzazione dei prodotti in tutto il mondo) delle multinazionali che operano nel settore.
C’è infatti, nel film, una sotterranea e sottaciuta presenza che, a malapena, si cerca di mascherare: la questione dello sfruttamento del lavoro minorile utilizzato per produrre le celebri scarpe “Air Jordan” della Nike (ma anche di tutte le scarpe sportive, sia della Nike, che delle altre società multinazionali che operano nel settore, e non solo nel settore sportivo). Scarpe che sul mercato hanno un prezzo di 200-300 dollari e, a volte, anche di più, hanno invece un costo di produzione di 20 volte inferiori, grazie alla delocalizzazione della produzione in paesi dell’estremo oriente o africani, e soprattutto grazie all’impiego (senza diritti e senza limiti di orario) di bambini e adolescenti.
Di tutto ciò anche la Nike, che ha finanziato il film, e gli autori del film, ne sono consapevoli. Produrre questo film, che consiste in un’autocelebrazione della multinazionale per aver vinto la partita con le sue concorrenti, e per aver aperto una strada nuova sul terreno dei rapporti tra azienda capitalistica e campioni dello sport, non serve a cancellare l’amara realtà dello sfruttamento brutale del lavoro minorile, ma costituisce, almeno agli occhi della maggior parte del pubblico che ben conosce questo triste fenomeno, una sorta di ben pagata e soddisfatta auto-assoluzione.