“Dogman” diretto da Luc Besson, recensione di Armando Lostaglio

“Dogman” diretto da Luc Besson

recensione di Armando Lostaglio

L’uomo degli indifesi animali che sono i piu fedeli, l’uomo dei cani.
Dogman. E’ il titolo dell’ultimo film di Luc Besson, il cineasta
francese che sa confrontarsi con il colossale sistema hollywoodiano. E
questo sontuoso film, ignorato dai Leoni elargiti all’ultima Mostra di
Venezia, nonostante la mostruosa interpretazione di Keleb Landry Jones,
ci lascia quel senso di trepidante ansia per tutto lo scorrere della
narrazione. Un uomo solo e che si impone per dignità, infanzia negata e
violata, e i cani che si affezionano alla sua tenerezza e che rispondono
ad una condizione di telecomando.
Lo spettatore è in sala (a Venezia in migliaia, e ora
è distribuito in Italia) auspica che il dolore messo in scena,
propedeutico alla narrazione, fosse sviluppato in modo compatibile con
la equa empatia, evitando che il dolore stesso si ripercuotesse verso i
protagonisti del film, i cani. Che sono decine e decine, di tutte le
razze, di tutte le dimensioni. In fondo essi, nelle difficoltà, superano
le differenze, facendo gruppo. Anzi, una squadra di soccorso. Perché,
“Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane” recita in epigrafe il
film, citando il poeta Alphonse de Lamartine per introdurre quello che è
la più matura pellicola di Besson, dopo aver girato capolavori come
“Léon”. E il suo Dogman (come il titolo del film cristologico di Matteo
Garrone, qualche anno fa), si trucca e si traveste come un emulo di
“Joker” (film di Todd Philips), volto a interpretare altri personaggi,
donne di fama con voce sublime, da Edith Piaff alla Merylin: è sempre
se stesso, seppur paraplegico e oltremodo segnato dalla vita. Il
magnifico attore regge per intero questo ultimo capolavoro di Luc
Besson, in grado di renderci capaci di assimilare la rabbia e il dolore
altrui come antidoto al conformismo senza alcuna critica e giudizio. E
la scena finale saprà di miracoloso, di divino quasi, come la Balena
(The Wahle di Darren Aronofsky).
Per David Cronenberg: “la maggior parte degli artisti sono attratti da
ciò che è tabù, un artista serio non può accettare i tabù, qualcosa che
non puoi guardare, pensare, toccare.”
E Dogman ci sa toccare, come un segugio che ci segue nel profondo, per
ammansire ogni crudeltà pregressa.